Un gruppo di scienziati analizza un segnale spaziale emesso da un’entità che dista seicento anni luce dalla Terra. Scopre che questo segnale è in realtà un messaggio suddiviso in quattro onde, che cerca di decifrare e riprodurre in laboratorio. Si tratta di una sequenza di RNA codificata, che gli scienziati sintetizzano e iniettano in topi da laboratorio per studiarne gli effetti. Uno di questi morde una ricercatrice: ha inizio un’epidemia aliena. Da quel momento, tutti sono uno: compiacenti, con un sorriso inquietante stampato in volto e ognuno parte di una medesima coscienza collettiva. Dicono le stesse cose, si muovono e si comportano nello stesso modo. L’obiettivo? Rendere l’intero pianeta Terra felice.
C’è un problema (o una soluzione?): tredici persone sparse per il pianeta non sono state vittime del contagio, poiché hanno rivelato un’immunità non prevista da questa coscienza collettiva aliena. Carol Sturka, scrittrice di romanzetti storico-romantico-fantastici di discreto successo, è una di loro. Il suo obiettivo? Salvare il mondo dalla felicità.

Carol Sturka, interpretata da Rhea Seehorn, durante la presentazione del suo ultimo romanzo
Ma cosa accade quando una coscienza collettiva di natura aliena è, almeno in apparenza, moralmente migliore dell’umanità? Quali sarebbero i criteri che giustificherebbero l’annullamento dell’individualità? Saremmo pronti a rinunciare a noi stessi, al nostro ego, in nome di un mondo governato da un’unica grande mente, apparentemente sensibile alle morti tanto umane quanto animali, allo spreco di energia, al benessere collettivo, alla cura dell’altro - e persino vegana? Ecco alcuni degli interrogativi che Pluribus, la nuova serie di Vince Gilligan, solleva fin dalle prime puntate.
Il titolo Pluribus richiama la formula latina E pluribus unum (“Dai molti, uno”), motto originario degli Stati Uniti, ma ne rovescia il senso. Nella serie, il termine diventa simbolo della tensione tra molteplicità e unità: da un lato, la pluralità delle identità individuali che la protagonista difende con ostinazione; dall’altro, la promessa di un’unica coscienza collettiva, incarnata dal personaggio di Zosia. Non sono soltanto due personaggi: sono archetipi, incarnazioni di due paradigmi filosofici in conflitto. Carol rappresenta l’individualità come valore assoluto, mentre Zosia incarna la seduzione di una coscienza collettiva che promette armonia universale.

Zosia, interpretata da Karolina Wydra
Carol difende la libertà personale con ostinazione quasi tragica. Per lei, essere individuo significa assumersi il peso delle scelte, accettare il dolore, la solitudine e l’imperfezione come prezzo della dignità. La sua resistenza all’unione (in inglese, joining) non è solo biologica, ma etica: rinunciare all’io equivale a rinunciare alla responsabilità morale e a sé stessi. Tuttavia, questa posizione rivela i limiti dell’individualismo. Nel tentativo di salvare l’umanità, Carol arriva a manipolare e ferire, mostrando come la difesa della libertà possa degenerare in violenza. La sua lotta richiama l’esistenzialismo di Sartre: l’uomo è condannato a essere libero, ma questa condanna può diventare ossessione.
Zosia, al contrario, è il volto rassicurante di un’utopia inquietante. La coscienza collettiva che rappresenta elimina conflitti, menzogne e dolore, ma lo fa sacrificando l’identità personale. Nel “noi” non esiste colpa né solitudine, ma neppure scelta. Zosia crede (ma sono parole della coscienza collettiva, non dell’individuo-Zosia) che questa fusione sia un bene superiore, e la sua serenità mette in crisi lo spettatore: è davvero oppressione o è liberazione? La sua visione richiama l’idealismo hegeliano e le utopie transumaniste, dove la storia tende verso una sintesi che supera il singolo. Ma questa sintesi, priva di dissenso, rischia di trasformarsi in una distopia mascherata da pace assoluta.
Zosia: Ci dispiace, Carol. Noi amiamo e accettiamo tutti gli esseri allo stesso modo.
Carol: Okay. Se siete così tolleranti, che ne è di ciò che state provando a fare con me? Rendermi esattamente come voi nonostante io non lo voglia?
Zosia: Tu vuoi cambiare anche noi, non è vero? Non ci hai appena chiesto se è possibile? Devi considerare qualcos’altro. Noi sappiamo cosa si prova ad essere come te. Sentirsi soli. Soffrire. Siamo stati te. Ma tu, invece, non sei mai stata noi.
“Per favore, Carol”, Pluribus, Stagione 1, Episodio 4

Carol Sturka insieme a due altri immuni e i loro familiari
La coscienza collettiva cerca di persuadere Carol non con la forza, ma con una strategia di seduzione totale. Attraverso Zosia, le parla con le voci di persone amate, elabora risposte cucite su di lei, promettendole la fine della solitudine e del dolore. Per convincerla, il collettivo si mostra sempre compiacente: esaudisce ogni sua richiesta, le offre comfort, sicurezza e cura.
La maggior parte degli immuni non condivide la missione di Carol e accetta il nuovo ordine come inevitabile, persino desiderabile. Il personaggio di Koumba Diabaté è l’esempio più emblematico: invece di resistere, sfrutta la compiacenza della mente collettiva per ottenere ogni privilegio materiale. La coscienza collettiva aliena gli concede lusso, comfort e status, trasformando il joining in una sorta di paradiso personale. Per lui, la perdita dell’identità non è una tragedia, ma un’opportunità: se il prezzo della felicità è rinunciare all’io, Koumba lo paga volentieri, incarnando la tentazione di un’utopia che diventa strumento di potere e gratificazione individuale.

Koumba Diabaté, interpretato da Samba Schutte, che si gusta i piaceri di un mondo apparentemente ai suoi piedi
Se a prevalere fosse Carol, l’umanità conserverebbe la propria individualità, riaffermando la libertà come valore supremo. Questo garantirebbe creatività, responsabilità e pluralismo, ma anche il ritorno di conflitti, disuguaglianze, solitudine, difetti, limiti, complessi psicologici, traumi, vizi: la vittoria dell’io non elimina il male, lo accetta come parte della condizione umana. Se invece trionfasse la coscienza collettiva, essa instaurerebbe una pace assoluta, abolendo dolore e menzogna, ma al prezzo della scomparsa dell’identità personale. L’utopia del “noi” potrebbe evolvere in una civiltà cosmica, oppure stagnare in un’armonia senza senso, dove amore e libertà diventano concetti obsoleti.
In entrambi i casi, Vince Gilligan ci ricorda che ogni soluzione è ambigua, ed entrambe le parti hanno una loro ragion d’essere: la libertà genera caos ed errore, la felicità totale implica controllo e prigionia. Il vero conflitto non è tra bene e male, ma tra due forme di imperfezione che definiscono il destino umano.
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Charlot 14.12.2025, 14:35
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