Il contesto è tutto: lo sapevamo già, continua ad essere vero. E le grandi opere narrative sono quelle che riescono a parlare al pubblico in contesti diversi, epoche diverse, senza vedere intaccata la loro potenza.
Vero, ancora non sappiamo se sarà questo il caso di The Last of Us, che non ha neppure dieci anni – è uscito a metà 2013 sulla (allora) Playstation 3 di Sony. Però gli indizi si stanno accumulando: dopo essere stato immediatamente considerato il miglior gioco della sua generazione, tre anni dopo i critici scrivevano che era ancora il miglior gioco anche di quella successiva, su Playstation 4. A settembre 2022 ne è uscita una versione remake per l'attuale console Playstation 5: tecnicamente migliorata, eppure pressoché identica all'originale per quanto riguarda ambientazione, personaggi, sviluppo della trama, colpi di scena.
Di conseguenza, inutile? Niente affatto: videogame più venduto dell'ultimo bimestre dopo quelli sportivi (FIFA, NBA 2K, Madden NFL, che però notoriamente giocano – perdonate la battuta – in un altro campionato), già premiato, osannato dalla critica. E poi, ecco la notizia di un adattamento televisivo in arrivo nel 2023 prodotto da HBO, vale a dire il network simbolo della prestige television contemporanea (letteralmente inventata nei primi Duemila con lo slogan “It's not Tv, it's HBO”). Insomma, The Last of Us comincia ad apparire come uno dei racconti più persistenti dell'ultimo decennio, e forse perfino la più importante narrazione distopica della nostra epoca. Che non a caso è un videogame.
Vero, la concorrenza non è mancata: dalla letteratura (poi trasformata in pellicola) di Hunger Games, Divergent e infiniti cloni, al cinema dei nuovi Mad Max, al fumetto (poi diventato telefilm) di The Walking Dead, alla televisione di Black Mirror (per non parlare della nuova vita del Racconto dell'Ancella di Margaret Atwood)… l'elenco è potenzialmente sterminato. Eppure la distopia in forma di videogame, quella di The Last of Us, sembra avere un vantaggio competitivo tanto semplice da notare quanto fondamentale: l'immersività. Perché se è vero che ci si può perdere completamente tra le pagine di un libro, e altrettanto che un film o telefilm può catturare completamente la nostra attenzione, l'interattività presente in un videogioco cambia radicalmente l'esperienza della narrazione, coinvolgendo chi gioca in modo diverso da quello di ogni altro mezzo.
Ma andiamo con ordine. Breve riassunto: nel 2013 un'epidemia trasforma gli umani in zombi famelici. Durante questa apocalisse Joel Miller vede morire sua figlia tredicenne. Vent'anni dopo i sopravvissuti vivono nelle poche zone non infette rimaste, al potere c'è una dittatura militare. Joel incontra Ellie, una quattordicenne che sembra essere immune alla malattia-zombi: il suo sangue potrebbe contenere il vaccino per curare l'umanità.
Chiaro che questa semplice sinossi non rende giustizia alla scrittura di The Last of Us, che riesce a usare l'interattività del videogioco per amplificare l'impatto del racconto: le sequenze di gioco in cui siamo chiamati a sopravvivere in un ambiente ostile offrono – appunto – il godimento del giocare, ma allo stesso tempo richiedono un impegno (fatica, se volete; ansia, in alcuni casi) che aumenta considerevolmente l'investimento emotivo di chi sta davanti allo schermo, e si riverbera sugli snodi della trama. Come Cormac McCarthy in La Strada sottopone al lettore pagine e pagine di racconto estenuante, per sfinirlo prima di assestare il colpo decisivo, così l'esperienza di gioco in The Last of Us prepara il terreno per colpi di scena che hanno quasi sempre a che fare con difficili scelte morali. Scelte obbligate – perché la trama è decisa, come in un romanzo o in un film – la cui responsabilità viene però scaricata sulle spalle di chi gioca, perché al giocatore o alla giocatrice è richiesta un'azione (situazione tipica: sappiamo che non vorresti uccidere quel personaggio, ma è necessario farlo, quindi schiaccia quel pulsante, premi il grilletto).
Se è vero che l'efficacia di ogni narrazione si può misurare con l'intensità della reazione emotiva che riesce a suscitare in chi la consuma, la regola è ancor più valida nel caso delle narrazioni distopiche, che nascono per mettere di fronte lettori e spettatori (o gamer) a problemi enormi come il ruolo e il destino dell'umanità, le sue possibilità di migliorare o distruggere il mondo, e altre questioni capaci di provocare un senso di vertigine anche negli animi più razionali. Il potenziale del videogame in particolare è altissimo quando si tratta di narrazioni centrate sulla critica delle trasformazioni sociali, e sulla dialettica tra alternative utopiche e distopiche quando ne immaginiamo le conseguenze future.
Fin dalla sua nascita il genere distopico ha affascinato il pubblico per il ruolo centrale che riserva ai “rivoluzionari”, persone che si impegnano nella lotta contro la distopia stessa e cercano – per quanto possibile – un miglioramento del loro mondo. Nella distopia videoludica il giocatore assume questo ruolo di dissidente, diventando responsabile in prima persona della salvezza o della rifondazione della società. Sta agli sceneggiatori del gioco rendere questa responsabilità molto più coinvolgente rispetto alla semplice pressione di un tasto.
Ecco perché, quando la scrittura è di alto livello, il videogame appare il catalizzatore più efficace per le narrazioni distopiche. Ed ecco perché The Last of Us – nelle sue diverse incarnazioni transmediali – è destinato a risuonare ancora per un bel pezzo tra gli occhi e il cervello di una generazione.