Una secchiata d’acqua ci accoglie lungo il sentiero che passa a ridosso di una casa nel quartiere H2, dove oltre un migliaio di soldati israeliani vigila su queste abitazioni occupate da circa 700 coloni israeliani. Qui gli intrusi non sono graditi. Ma è il passaggio obbligato per raggiungere Issa Amro, storico attivista palestinese. Vive in una specie di gabbia con inferriate di alcuni metri. L’unico modo – spiega a Falò – per proteggere la sua casa dai continui attacchi degli stessi coloni. “Questi ulivi implorano di essere curati, ma io non posso” dice accogliendomi su una spianata che domina il centro storico di Hebron tra alberi da cui negli ultimi due anni – dall’ottobre 2023 – i soldati gli hanno impedito di raccogliere le olive.
Lo sguardo spazia sul centro di Hebron, che in arabo si chiama Al Khalil. Issa Amro è un attivista molto conosciuto, impegnato da sempre per una soluzione pacifica del conflitto con Israele.
Aggressioni continue dei coloni
Ha scelto di restare nonostante le continue aggressioni dei coloni. Mi mostra i video di una delle ultime incursioni dentro casa sua: un drappello di giovani che entra nel cortile gridando. “Non posso difendere la mia casa dai coloni. Se li tocco, vengo arrestato. Così possono rubarmi le videocamere di sorveglianza, i serbatoi dell’acqua, i limoni. Possono fare quello che vogliono nella mia casa”. Il problema, spiega l’attivista, “è che io e te siamo sottoposti a due leggi diverse: per te il codice civile, per me e per i palestinesi di Hebron quello militare”.
Issa Amro denuncia la crescente impunità per le violenze dei coloni: “Si sentono impuniti: pensano di poter fare tutto quello che vogliono. Non rispettano nemmeno il loro ebraismo”.
(L’ultima aggressione arriva dopo la nostra intervista: la notte scorsa – intorno alle 2 – ancora un attacco dei coloni, il terzo in dodici ore. Due coloni entrati di notte nella sua casa, l’hanno poi accusato di aver tirato loro delle pietre e i soldati stavano per arrestare Amro. Solo la videocamera di sorveglianza gli ha permesso di mostrare i fatti, evitando così di essere fermato dall’esercito).
Dentro una gabbia
Dopo il massacro di Hamas del 7 ottobre 2023, le restrizioni contro i palestinesi si sono ulteriormente inasprite. “Usano la scusa del 7 ottobre per mettere in atto i piani di ridurre il numero di palestinesi che vivono qui per poter annettere la nostra terra a Israele”. Ma noi, insiste Amro, “non abbiamo alcun legame con i fatti del 7 ottobre, non li abbiamo appoggiati”.
Il risultato è che oggi per poter rimanere nella propria casa Amro ha dovuto aggiungere queste alte inferriate alla sua abitazione. “Sono rinchiuso in casa mia. Non mi piace ma è l’unico modo per ritardare l’arrivo dei coloni, per proteggermi o per sentirmi al sicuro nella mia casa, che è come una gabbia. È quasi una prigione”. Una situazione, aggiunge, condivisa da moltissimi palestinesi: “Rinchiusi nelle loro case, nelle loro comunità, nelle loro città”.
Le zone di “non vita”
Il centro di Hebron è semi-deserto. Solo soldati israeliani appostati ogni poche decine di metri, in un tessuto interrotto da check-point che separano letteralmente una casa dall’altra nelle vie del centro. Li chiamano “crossing point”: un’assurda frontiera interna alla città, per spostarsi da una strada all’altra, composta da un gigantesco cancello presidiato da telecamere, filo spinato e un tornello come l’ingresso di uno stadio.
“Creano queste zone di “non vita” impossibili da abitare e in cui rimanere” mi dice ancora Issa Armo: “Non ti cacciano via fisicamente, ma ti rendono impossibile vivere e restare qui: non puoi lavorare. Non puoi andare all’università, non puoi andare in ospedale. Non puoi andare all’asilo o a scuola. Sei bloccato”.
Abramo, i patriarchi e la moschea
Il controllo dell’esercito è tentacolare a Hebron, che custodisce uno dei luoghi sacri per le religioni del Libro. Gli ingressi sono separati per quella che gli ebrei chiamano “Tomba di Abramo e dei Patriarchi”; per i musulmani è la moschea di Ibrahim. Ma l’esercito da alcune settimane impedisce ai palestinesi di raggiungerla. Yazan Tamimi, 23 anni, fresco di laurea in inglese e in attesa di insegnare in una scuola locale, ci accompagna nei vicoli della Kasbah. Socchiude una porta di ferro che si spalanca sul grande edificio, dove una menorah troneggia accanto al minareto. “Non possiamo più andare alla moschea di Ibrahim, dobbiamo fermarci qui”. Nel timore dei soldati israeliani, la richiude immediatamente. Anzi, si “rinchiude” dentro gli spazi in cui questa comunità è costretta a rimanere. “Il quartiere è aperto dalle 8 del mattino alle 6 di sera. Poi qui non si può più camminare”. Di nuovo sento ripetere la metafora dalla gabbia e della prigione: “È come essere in carcere. Sei libero solo dentro casa tua, ma se apri la porta non lo sei più”, spiega Yazan. “Un soldato può arrivare e arrestarti senza motivo”.
L’infermiere diventato medico
Mohammed Abu Shabaan è un infermiere, coordina il team infermieristico del principale ospedale di Hebron. La sua quotidianità si basa sul passaggio attraverso quei “crossing point” in cui un soldato decide se puoi andare al lavoro oppure no, se puoi tornare a casa tua oppure no.
“I soldati conoscono il mio lavoro e sanno che sono un infermiere. Ma se decidono di non farmi passare, non c’è nulla da fare”. Alternative? “Vado a dormire da miei parenti in un’altra parte della città”.
Mohammed racconta che dopo il 7 ottobre qui nel centro di Hebron nella zona sotto controllo israeliano l’esercito ha vietato l’uscita dei residenti e l’ingresso di ambulanze. Per mesi, l’infermiere si è trasformato in una specie di “medico di quartiere”. “Mi telefonavano le persone quando stavano male, soprattutto gli anziani. Accade tutt’ora: io cerco di aiutarle, somministro loro i farmaci, proprio come in ospedale”, aggiunge Mohammed che è anche un paramedico volontario. Il suo aiuto ha compensato la carenza di assistenza sanitaria: impedire l’accesso alle cure per la popolazione civile costituisce comunque una manifesta violazione dei diritti dei palestinesi. Una delle tante a cui sono sottoposti in un regime che ostacola e limita le loro vite.
L’espansione verso Gerusalemme
Eppure l’occupazione continua ad espandersi. Lo scorso agosto il governo Netanyahu ha approvato il più importante progetto degli ultimi 30 anni, fermo da decenni: il controverso “E1”, che quasi raddoppierà la grande colonia di Ma’ale Adumim, un insediamento ritenuto illegale da gran parte della comunità internazionale.
Incontro il sindaco Guy Yifrah nel suo ufficio in municipio, sulla scrivania in bella mostra il cappellino rosso dei “Maga” di Trump. Su una mappa, mi indica l’area “E1”: Questa e la nostra città…. e questa è Gerusalemme. La distanza in linea d’aria è di cinque chilometri. Costruire una continuità territoriale è naturale e logico. Non c’è motivo per non farlo. Quest’area, che appartiene allo Stato di Israele anche secondo gli Accordi di Oslo. È territorio israeliano”. Gli faccio notare che c’è grande preoccupazione a livello internazionale, perché l’intervento taglierà in due la Cisgiordania. “Non è vero”, replica il sindaco. A suo dire, ci sarà un passaggio di 15 chilometri che bypassando Ma’ale Adumim da sud a nord “garantirà piena libertà di movimento” ai palestinesi. Una definizione che stride enormemente con la realtà dei fatti sul terreno. Basta leggere la scritta “apartheid road” sulle barriere di cemento alte un metro che già oggi separano la carreggiata tra la strada in arrivo da Betlemme e quella per l’accesso alla colonia di Kedar, alla periferia di Ma’ale Adumim. Lì sono stati appena aggiunti 5 prefabbricati: gli avamposti illegali dell’espansione degli insediamenti. Campeggiano in cima alla collina, li vediamo da un piccolo villaggio beduino sottostante.
“Non ci sarà lo Stato palestinese”
Presentando il progetto “E1”, Netanyahu ha ribadito che non ci sarà uno Stato Palestinese. Il ministro dell’ultradestra messianica e nazionalista Bezalel Smotrich si è spinto a dire che “non ci sarà più nulla da riconoscere”, in relazione invece al riconoscimento della Palestina da parte di alcuni stati lo scorso settembre all’ONU, tra cui Francia e Gran Bretagna. “Io sono solo il sindaco di Ma’ale Adumim: non entro nel dibattito politico. Dico solo che noi abbiamo bisogno di nuove case per i nostri cittadini” dice alla RSI Guy Yifrah, “Però Netanyahu ha ragione: uno Stato palestinese dentro i nostri confini sarebbe un pericolo per gli ebrei e per Israele”.
Il “sostegno” della Svizzera a Israele
Chi rifiuta la soluzione a due Stati, come Israele, dovrebbe essere “punito”: “Con sanzioni efficaci – secondo Issa Amro - Israele non riuscirebbe a mantenere così a lungo l’occupazione. Invece gode del sostegno di Svizzera, Europa e Stati Uniti”. Stando all’attivista di Hebron, Berna “giustifica l’occupazione: gli svizzeri dicono di essere neutrali ma nei fatti aiutano politicamente e finanziariamente l’occupazione. Chiediamo che tutto questo finisca e che la Svizzera agisca in base ai principi della democrazia”.
“Non ce la facciamo più”
L’espansione delle colonie – illegale secondo gran parte della comunità internazionale – intanto viaggia a ritmo sostenuto, con l’appoggio dei ministri della destra nazionalista. Non solo il progetto “E1” che porterà 30’000 nuovi abitanti. Ma a Ma’ale Adumim sono previsti anche altri due interventi già approvati, con migliaia di nuove case nella colonia. E in preparazione c’è persino un nuovo quartiere ebraico con ulteriori 7’000 alloggi in direzione di questa collina abitata dai beduini.
Visto da Hebron, l’ampliamento degli insediamenti appare come un colpo decisivo non solo alla possibilità dei due Stati, ma anche alla prospettiva di una vita accettabile: “Ci sembra di perdere la nostra identità” dice ancora Issa Amro. Hebron – aggiunge – era descritta come il microcosmo dell’occupazione israeliana: “segregazione, separazione, posti di blocco ovunque. Questa adesso è la vita in tutta la Cisgiordania: violenza dei coloni, aggressioni dell’esercito, check-point, sorveglianza, nessun servizio, nessuna economia. Tutto è chiuso. Tutto è limitato. Per noi è davvero troppo. Non ce la facciamo più”.