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Israele non è mai stato così isolato

L’analisi a “60 minuti” della situazione politica ed economica di un Paese sempre più sotto la pressione degli Stati Uniti e delle famiglie che chiedono il rilascio degli ostaggi

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La “Flotilla” umanitaria - Segnali di pace: il piano Trump e le mosse di Hamas e Israele

60 minuti 06.10.2025, 20:45

  • Keystone
Di: 60 minuti/FCi 

A due anni dal 7 ottobre, potrebbe essere il momento di una svolta per un’eventuale pace nella Striscia di Gaza. A 60 minuti della RSI, Reto Ceschi ne ha parlato con vari ospiti, tra cui il corrispondente da Washington Massimiliano Herber e l’inviato a Gerusalemme Emiliano Bos.

Riguardo alla liberazione degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas, la gente dice “ora o mai più” e la pressione perché questo accada continua. “Davanti alla residenza del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu i familiari degli ostaggi hanno costruito una capanna come per dire al premier: ‘Da qui non ci spostiamo finché non arriverà una soluzione’”, racconta Bos. E la preoccupazione a Tel Aviv è anche quella delle famiglie dei 60’000 riservisti che sono chiamati a svolgere il mandato militare all’interno della Striscia.

La gente vuole sì la liberazione degli ostaggi, ma vuole anche la pace. “Qualche giorno fa - spiega Bos - una signora mi ha detto: ‘A noi interessano gli ostaggi. Ma non parliamo mai dei palestinesi del futuro dei rapporti con Gaza, perché le nostre televisioni ce lo mostrano poco’”. In Israele è dunque “calato una sorta di sipario di un vergognoso silenzio anche sulle sofferenze dei palestinesi”, causato anche dal fatto che Israele ha impedito alla stampa un accesso indipendente all’interno della Striscia di Gaza.

Le pressioni degli Stati Uniti pesano sull’economia israeliana

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump spinge come non mai per far fermare la guerra. Israele i trova quindi in una fase di isolamento più marcata rispetto ad altre fasi storiche. Israele, probabilmente, sente questo isolamento. E per capirlo, spiega Bos, è possibile guardare alcuni segnali. Uno di questi riguarda le nuove costruzioni: circa il 21% degli edifici non vengono portati a termine. “A Tel Aviv c’è sempre fermento, si costruiscono ovunque nuovi palazzi e strade”. Ora “la comunità economica, soprattutto quella che si muove sullo scacchiere internazionale, percepisce questa fase”.

Un altro indizio lo si può trovare nella richiesta, da parte dei familiari degli ostaggi israeliani, che hanno scritto una lettera al comitato per il premio Nobel per la pace, per chiedere l’assegnazione del riconoscimento a Donald Trump, sottolinea Emiliano Bos. “Dopo due anni hanno chiesto invano a Netanyahu di salvare i propri parenti, si rivolgono a qualcun altro”. E questo cozza con l’essenza di Israele che è quella di esserci l’uno per l’altro. Ora gran parte delle speranze sono affidate all’azione americana e ai colloqui in corso in Egitto a Sharm el Sheik.

I rapporti incrinati tra Trump e Netanyahu

Il rapporto tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, ricorda Massimiliano Herber, è “personale, storico, spesso di interdipendenza. Uno ha bisogno dell’altro. Da gennaio fino a qualche giorno fa, Trump si era limitato ad avvallare ogni decisione di Netanyahu”. Qualcosa, però, è cambiato. A incrinare i rapporti è stata probabilmente “l’iniziativa israeliana di tentare di bombardare Hamas a Doha”. Uno sgarbo non digerito da Trump per due motivi, spiega Herber. Il primo è che il Qatar è un partner politico e commerciale americano. Il secondo è che “Israele aveva fatto intendere di aver avuto l’approvazione per il blitz da parte del presidente statunitense, che invece era stato informato soltanto all’ultimo momento dal Pentagono”.

La pace nella Striscia di Gaza sembra quindi particolarmente legata al desiderio di Trump di intensificare i rapporti d’affari con i Paesi del mondo arabo musulmano. “La sicurezza e la stabilità sono condizioni necessarie per poter fare affari e continuare a farli”, ricorda Herber.

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