Le persone ucraine che si sono rifugiate in Svizzera devono - lo ha stabilito il Consiglio federale lo scorso 1. novembre - essere in grado di trovare un lavoro. Ma se l’intenzione del Governo è buona, la possibilità che si concretizzi lascia ancora molto a desiderare. A dirlo sono gli stessi rifugiati che la RSI ha incontrato a Ginevra dove si è tenuto un incontro del programma Bevel, un’iniziativa privata destinata a manager e imprenditrici fuggiti dalla guerra.
Per Dima Timchenko, ex imprenditore a Odessa, gli ostacoli sono soprattutto le nuove regole e soprattutto una nuova lingua da imparare: “È un mondo nuovo per noi”. Per questo motivo, secondo lui, non riesce ancora a trovare un lavoro, nonostante i numerosi curriculum inviati a destra e a manca, senza ricevere risposta.
“In Ucraina era molto più facile”
Anche Julia ci prova. È arrivata a Ginevra con il figlio nell’aprile 2022, fuggendo da Kiev. Ora sta studiando business e nel frattempo cerca ovunque un impiego. È dura - dice, aggiungendo che “in Ucraina era più facile. Molto diverso”.
Di solito i partecipanti a questo programma, che ha lo scopo di facilitare la loro ricerca, si incontrano online per seguire una lunga serie di video-conferenze che toccano molti aspetti del mondo del lavoro in Svizzera.
Dima non ha ancora trovato delle buone opportunità, accanto a tanti lavori molto semplici. “Gli ucraini - dice - hanno una buona formazione. Ci sono lavoratori molto qualificati”. Il programma che sta seguendo qui è “un piccolo tesoro, fornisce delle buone risposte ai numerosi interrogativi”.
Un anno fa la situazione a Ginevra era più difficile. “Ora - dice Julia - le autorità cantonali, tramite l’Hospice général, cercano di capire le nostre necessità, si interessano al nostro livello di formazione. La situazione migliora”.
La stessa fondatrice di Bevel, Inna Malaia, non nasconde però le difficoltà: “Il mercato del lavoro in Svizzera è molto duro. È difficile capire come mai. Noi facciamo capo a specialisti, che ci aiutano nell’inserimento professionale. Creiamo reti di contatto, offriamo delle guide per aprire delle nuove porte, senza limitarci al semplice invio di curriculum vitae. Facciamo conoscere nuove opportunità per trovare un impiego”.
“Per ora faccio lavoretti in un bar”
Un’altra ragazza ucraina cita l’intenzione del Governo elvetico di aumentare il numero di rifugiati con un lavoro: “Ma non ci ha spiegato come pensa di raggiungere questo obiettivo. Ho contattato il mio assistente sociale per la lingua, ma mi hanno iscritta a un corso di tedesco di livello troppo basso. Intanto faccio lavoretti in un bar, in un teatro, al mercatino di Natale. Volevo trovare un buon impiego, ma ho capito che per i datori di lavoro è molto pericoloso assumere persone con lo statuto S”.
Il problema principale in buona parte l’etichetta di rifugiato. Questa è anche l’impressione della fondatrice di Bevel: “C’è uno stigma sociale che esclude dal resto della società. Noi cerchiamo spezzarlo, mostrando che c’è un potenziale in questa gente”.
La situazione è molto diversa tra un cantone e l’altro, spiega un’altra rifugiata. “Conosco storie molto belle di Cantoni che finanziano i corsi di lingua o corsi di integrazione, ma questo succede solo in grandi città come Zurigo o Ginevra”.
“In Ticino ad aver trovato sono molti meno”
Il Ticino la situazione si presenta in chiaroscuro. Lo racconta Maya Budkova, una delle fondatrici dell’associazione Amicizia dei popoli. Lei è di origine ucraina, si è adoperata da subito per aiutare i rifugiati scappati dalla guerra. “Oltre il 30% delle persone che siamo riusciti a inserire si trovano in altri cantoni, in Ticino sono molti meno”. L’interlocutrice indica il problema del riconoscimento dei diplomi: “Alcuni diplomi non sono validi. Parliamo di dottori, di insegnanti, di contabili. Soprattutto troviamo difficoltà all’interno delle aziende”.
Il Cantone: “Un 20% lavora o può farlo”
A fornire le cifre è Cristina Oberholzer Casartelli, responsabile della Sezione del sostegno sociale: “A inizio dicembre abbiamo registrato 338 autorizzazioni lavorative che, se paragonate alle 1’647 persone in età lavorativa, significa che circa un 20% lavora o ha la possibilità di lavorare”.
Siamo tuttavia ancora ben lontani da quel 40% che è l’obiettivo che il Consiglio federale intende raggiungere entro fine 2024. Una quota che Oberholzer definisce “piuttosto ambiziosa. Irraggiungibile no, ma bisogna tenere presente che ci sono molteplici difficoltà. A iniziare chiaramente dalla lingua, ma c’è anche la situazione familiare. Sul territorio ci sono soprattutto donne con bambini. C’è quindi anche l’esigenza di trovare una sistemazione per i figli prima e dopo la scuola”.
Le testimonianze dal Ticino
SEIDISERA 07.12.2023, 18:42