Territorio e tradizioni

Carnevale: un tripudio del cibo?

Franco Lurà ci racconta l'origine della parola “Carnevale” e di quelle golosità tipiche del nostro territorio

  • 21 febbraio 2022, 14:58
Carnevale Rabadan 2020, bicchieri e stoviglie. Nella foto, alcune delle stoviglie riciclabili utilizzate durante il Carnevale Rabadan 2020

Carnevale Rabadan 2020

  • © Ti-Press / Samuel Golay
Di: Franco Lurà

Il carnevale è il momento della festa, dell’allegria, della spensieratezza, della sfrenatezza: "semel in anno licet insanire", una volta all’anno è lecito far pazzie, recita una nota sentenza, diventata proverbiale già nel Medioevo. È quindi ovvio che per l’occasione anche la gola abbia la sua parte, con cibi e pietanze che in passato non erano all’ordine del giorno.

A quell’epoca, dopo gli eccezionali fasti natalizi, la carne ritornava a fare la sua comparsa nelle cucine e sulle tavole, soprattutto sotto forma di salumi e luganighe, in abbinamento privilegiato con la polenta. Nelle campagne e nelle valli era il momento di una pietanza semplice ma ghiotta, le castagne con la panna (oggi ci si è un po’ imborghesiti, e alla panna montata si accompagnano i débris dei marrons glacés, e che sia o non sia carnevale poco importa). Anche i dolci erano speciali, fra questi i ravioli, gustosi impasti con un ripieno che variava e varia da regione a regione, dalla marmellata di prugne del Luganese a un miscuglio analogo a quello della torta di pane nella valle di Muggio. In Mesolcina si preparavano i padlònes, frittelle cotte nell’olio, e il confècc, dolce a base di miele o zucchero tostato a cui si potevano aggiungere del vino o delle noci.

Conosciutissimi sono poi i tortelli e altrettanto famosi sono i bigné ripieni di crema alla vaniglia o allo zabaglione, che pare vennero messi in vendita per la prima volta nel 1932 da una pasticceria di Bellinzona. Più recenti e di importazione sono le chiacchiere, frittelle fatte con una pasta leggera.

Ma sopra tutti oggi a farla da padrone è il risotto, con le immancabili luganighe, che viene offerto e distribuito alla popolazione da vari enti e associazioni, spesso create a scopo benefico. Questo ha una ben precisa spiegazione storica: nei nostri territori il riso non era coltivato, il poterlo acquistare era appannaggio di pochi, benestanti e ricchi. Per questo divenne nel corso dell’Ottocento il cibo per eccellenza della festa più sentita, il Natale, per poi estendersi anche ad altre feste. Fino a non molti anni fa, ancora in diverse famiglie ticinesi il risotto era la pietanza della domenica.

Insomma nel periodo del carnevale si assiste a un tripudio di cibi e leccornie che corona e impreziosisce la festa. La quale però nel suo nome veicola ben altro concetto e ben altre aspettative.

Il termine "carnevale" infatti deriva dal latino carnem levare "togliere la carne", denominazione che si spiega con il fatto che in origine con essa ci si riferiva solo all’ultimo giorno dei festeggiamenti, quello prima dell’inizio della Quaresima. Lo stesso concetto è insito nel sinonimo carnasciale – si pensi soprattutto all’aggettivo carnascialesco – che equivale a "asciare la carne".

La medesima situazione la si ritrova in altre lingue, dal sardo carrasegare "tagliare la carne", all’antico spagnolo carnestollendas "carni da togliere"; in Romania nel nome del carnevale si esprime l’idea di "legare, vietare la carne+", o di “legare” il formaggio, perché la chiesa ortodossa proibisce anche questo alimento nel periodo quaresimale. Come si vede, siamo di fronte a una concezione diffusa, che si rispecchia pure nella denominazione tedesca Fastnacht, la notte del digiuno.

Insomma, nel momento della festa, della crapula oseremmo quasi dire, l’idea che sta alla base del nome non è quella del godimento, dell’ebbrezza, del trionfo dei sensi e della carne. No, il pensiero è già rivolto altrove, all’imminente periodo di penitenza e di digiuno. Che dire allora? Che il carnevale voglia pure lui confermare la nota massima secondo cui per carnevale ogni scherzo vale? Che sia quindi burlone perfin nel suo nome?

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