Società

Luci

Il nostro bisogno di illuminare l'inverno

  • 17 gennaio 2023, 00:00
  • 31 agosto 2023, 11:26
Rembrandt, The Parable of the Rich Fool
Di: Valerio Abate

A Londra, nel 1417, si esortò gli abitanti ad appendere lanterne alle finestre per illuminare le sere d’inverno. Da allora le città europee hanno cercato di tenere a bada il buio di dicembre e gennaio illuminando le proprie strade.

Vedendo le giornate accorciarsi e le notti allungarsi, cresce il bisogno di magia; e tanto vicina alla magia è la luce, che scalda l’animo. E così la terra è diventata sempre più luminosa (forse perché sentiamo freddo).

I tempi in cui la sapienza egizia produsse la lucerna per muoversi nei templi e nelle tombe sono lontani. Eppure lì ebbe origine l’illuminazione, che si diffuse poi in tutto il mondo, in Oriente come in Occidente, rischiarando per millenni le notti buie con la luce rossa e fioca delle lampade a olio, accompagnate da fumo nero. Ma quella luce, che non era che un’addensante dell’oscurità, è ormai solo un ricordo.

Quando le candele dei Celti iniziarono a sostituire le lampade a olio nell’Europa medievale del Nord, stamberghe e palazzi signorili furono illuminati dalla stessa luce, ma ancora non si era pensato di disporre lumi agli angoli delle strade per dissipare la tenebra e le sue minacce – reali o immaginarie. Al calar della notte, notava Boileau, le città si facevano luogo di terrore: «i boschi più tetri e solinghi sono luoghi di sicurezza di fronte alle vie di Parigi». E fu proprio la capitale francese, nel 1667, a decretare per prima l’obbligo di collocare lanterne sui muri di ogni via e piazza. Ma non era sufficiente. Allora i secoli successivi diedero luogo ad un’inedita e continua ricerca di una luce sempre più forte, presente e duratura, sino ad arrivare alle luci cangianti degli enormi fari e schermi di New York e di Tokyo.

Nel vedere le notti rischiarate a giorno presto appare evidente l’infelice rapporto che abbiamo con l’oscurità, amata, sembrerebbe, solo da ladri e assassini. E se dietro la caccia alle tenebre vi fosse un motivo più profondo? Pare che quanto più la luce del cuore si affievolisce, tanto più arde il bisogno di illuminare il mondo – e così gli angoli bui si assottigliarono, le stelle in cielo si opacizzarono...

Edward_Hopper, Nighthawks, 1942

Quando la lampadina o la candela si spegne, dove va la luce? E da dove era venuta? Questi interrogativi sembrano fare eco a domande che ci toccano da vicino nel momento della morte e della nascita. La luce è forse la più vivida metafora della vita, e pertanto fonte di meraviglia. Dal Fiat lux biblico ai lumi della ragione e della scienza, la luce è metafora divina. Dal primo ramo, dalla prima torcia infiammata senza la quale le grotte non ospiterebbero le nostre più antiche pitture, abbiamo progettato balenii nella notte. Fiaccole alle entrate dei templi greci nelle sere estive, fuochi nei boschi e nelle radure. Non meno fascino possiamo trovare nella più fredda luce dei led sull’asfalto bagnato, o meglio ancora su di un vecchio selciato di pietra. Ogni tipo di luce ci cattura in un regno interamente suo, e gli oggetti che vi partecipano cambiano natura, giocano, urtano o assorbono languidi i riflessi. Le arti in questo ci hanno dato grandi prove: dai volti scaldati dalle candele di Gerard van Honthorst all’oro bizantino, dalla luce graziosa di Pontormo a quella crepuscolare di Friedrich, dalle vetrate gotiche alla luce scomposta di Monet o Segantini, fino alle scenografie di Craig e a tutto il cinema. Non è un caso se uno dei più grandi simboli del mondo moderno sia la macchina fotografica: nata per sigillare la luce, e con questa “fermare” il mondo.

Se la qualità del tempo cambia a seconda che a misurarlo sia un orologio meccanico, uno gnomone o una clessidra, allora la qualità dello spazio dipende dalla luce, sia essa una candela o il sole, un lampione o una stella, il fuoco della guerra o un raro sciame di lucciole in un campo.

L’illuminazione sembra però essere diventata un’ossessione che mira a rimuovere ogni spazio d’ombra o d’ignoto. Questo è evidente dalle luminarie urbane, che cancellano il buio, ma anche dalle nuove illuminazioni abitative. Oggi più una casa è luminosa più acquista valore; le pareti scompaiono per lasciar posto alle vetrate che consegnano la penombra al dimenticatoio. Si cerca costantemente la quantità della luce, anziché la qualità della luce, che si avvalora dalla sua relazione con l’ombra.

Le tazze, i cibi, i mobili e i pavimenti, le strade e i volti cambiano il loro aspetto a seconda che siano alla luce di una candela o di una lampada al neon. La luce di oggi è una luce elettrica, priva dell’oscillazione e dell’incertezza della fiamma. Il suo movimento è vibrante, tanto veloce da apparire immobile ed eterno. E ciò rende la luce elettrica diversa da ogni altra luce finora conosciuta. La luce bianca dei led, in piccole quantità, ricorda tanto la luce delle stelle, fredda, costante e distante, e per questo intima, ma di un’intimità diversa da quella dei focolari.

Blade runner 2049.jpg

Le grandi vetrate gotiche non furono realizzate per essere illuminate da potenti fari, bensì dalla luce del sole che, filtrando dai vetri, si posava colorata sulle pareti e sulle colonne delle navate. Le luci fioche delle candele non disturbavano affatto questo evento, ma per assistervi era necessario attendere quasi il crepuscolo. In qualche rara cattedrale, dove la luce elettrica non ha soppiantato l’antico dispiegarsi dei raggi solari, si può ancora vedere come un’aurora irrompere nello spazio ombroso e illuminare di una luce fulgida le pareti e le colonne che d’improvviso appaiono vibranti e vive. Più spesso fari luminosi livellano l’oscillazione del tempo rendendo insensata l’attesa del crepuscolo. Questi fari sono il frutto di una civiltà impaziente che vuole vedere tutto in una volta, ignorando che la visione quasi sempre si coglie quando alla nostra vista qualcosa sfugge, perché nascosto dietro un colle o rannicchiato nell’ombra.

In un’epoca così luminosa come quella odierna giova talvolta spegnere tutte le luci e lasciarne una modesta accesa. Occorre infatti una tenebra spessa per stimolare racconti degni di nota, ma questa condizione non si crea se non alla presenza di un lume, sia esso frutto di un camino o di una candela, di una torcia in una grotta o di una piccola lampada da scrivania. L’inverno, senza qualche storia da raccontare, perderebbe la sua grazia, e questo è uno dei motivi per cui usiamo ancora camini e candele. L’ombra è la casa dell’intimo, che si anima con più vigore là dove una luce tenue o incerta riesce a penetrarla.

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