Forti emozioni, momenti di tensione, violenza psicologica e, verso alcune persone, anche fisica. Fabrizio Ceppi, ticinese che ha partecipato alla Global Sumud Flotilla, racconta alla RSI la sua esperienza, dalla partenza ad Augusta, in Sicilia, alla prigione ai confini con Gaza, fino al ritorno in Svizzera.
Per Ceppi i momenti di grande emozione sono stati due. Il primo quando è riuscito ad avere un posto nella flottiglia che ha tentato di rompere il blocco israeliano. “Dopo giorni e giorni che cercavo di trovare un posto su una delle barche, finalmente mi hanno detto: ‘Sì, c’è un posto per te. Sei sulla Mango’. Quello è stato un momento molto forte per me”. Il secondo è stato il poter riabbracciare la famiglia dopo l’arresto e il rimpatrio.

Flottiglia: l'esperienza di Fabrizio Ceppi, appena rientrato in Ticino
SEIDISERA 06.10.2025, 18:00
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Il viaggio della flottiglia si è interrotto il 1° ottobre quando le barche sono state abbordate dalle forze israeliane. “Quella notte siamo stati preallertati dalla nave che guidava la flottiglia”, racconta Ceppi, parlando di varie imbarcazioni che circondavano la flottiglia. “Una di queste grosse imbarcazioni si è avvicinata. Aveva un cannone ad acqua e la spruzzava sulla nostra barca. Poi sono saliti a bordo e hanno preso il controllo dell’imbarcazione. Ci hanno fatto scendere di sotto uno a uno, ci hanno perquisito e poi è cominciato il viaggio verso Ashdod”.
Uno scenario al quale i naviganti della flottiglia erano stati allenati prima di partire e ai quali erano state date regole precise: “Nessuna provocazione, stare tranquilli e fermi con le mani alzate, indossando il giubbotto e una piccola borsa con gli oggetti essenziali come le medicine”.
Una volta sulla terra ferma trattamenti più duri e violenti
Arrivati al porto “le cose sono cambiate nettamente”, prosegue Ceppi. “Quando siamo sbarcati hanno lanciato a terra le nostre borse, ci hanno messo le mani dietro la schiena, ci spingevano, ci urlavano nelle orecchie. Poi ci hanno buttati per terra, in ginocchio, con la testa bassa. Siamo stati in quella posizione un’ora e lì abbiamo capito che eravamo passati a un trattamento decisamente diverso”.
C’è stato poi il passaggio in una prigione, avvenuto, spiega Ceppi, a bordo di un pulmann con delle celle molto strette. Una volta arrivati a destinazione, “l’unica cosa che abbiamo visto era un fumo densissimo nel cielo, che non poteva essere altro che il fumo dei bombardamenti su Gaza”. Poi “ci hanno spinti dentro una cella all’aperto e siamo rimasti lì finché non ci hanno fatto spogliare e ci hanno dato dei vestiti da prigionieri”. Una situazione difficile anche fisicamente: “Fino alla mattina dopo non abbiamo ricevuto niente da mangiare. Per cui siamo stati più di un giorno senza cibo e quasi un giorno senza acqua”.
“Non sai mai cosa ti sta succedendo. Ti mettono in questo stato di ansia continuo”
La violenza è stata principalmente psicologica, indica Ceppi, anche se “qualcuno ha ricevuto anche qualche colpo”. E spiega: “Era tutto il sistema che funzionava sulla continua aggressione per farti capire che erano loro che comandavano. In alcune celle sono entrati coi cani, in altre con i fucili. Poi ti accendono la luce improvvisamente di notte, poi la spengono, poi magari ti fanno uscire e non sai perché, poi ti riportano indietro. Per cui non sai mai cosa ti sta succedendo. Ti mettono in questo stato di ansia continuo”.
Critiche alla Confederazione
Negli scorsi giorni ci sono state accuse al Consiglio federale e al Dipartimento degli affari esteri per aver fatto solo il minimo indispensabile. Critiche che sono state portate avanti anche dai manifestanti che hanno protestato in varie città svizzere. “Il dipartimento è sempre stato sulla linea che ‘loro sanno che è una cosa pericolosa, quindi vanno a loro rischio e pericolo’”, dice Ceppi. Una linea che la Confederazione ha mantenuto anche dopo l’attacco avvenuto vicino a Creta e di questo il ticinese non si capacita. “Nessuno avrebbe mai pensato che Israele potesse arrivare a colpirci a 700 miglia da Gaza. Avremmo anche potuto fermarci lì per quello che potevano saperne (...) Poteva esserci una barca turistica qualsiasi lì vicino a Creta”, prosegue Ceppi, secondo il quale in quel caso la Svizzera avrebbe dovuto reagire.
E anche durante la detenzione, il supporto è stato limitato: “Abbiamo visto il console una volta per pochissimo tempo. L’incontro è finito prestissimo. Praticamente non abbiamo potuto dire nulla e l’unica cosa che abbiamo saputo è che saremmo partiti appena sarebbero riusciti a trovare un volo per farci rientrare. Ma questo lo sapevamo già”. Inoltre, indica, non sono state fatte comunicazioni ai loro familiari. Diversa la situazione per i cittadini italiani: “L’ambasciatrice italiana è andata a parlare vicino alle celle con i detenuti (...). C’è stato questo atto di vicinanza, per sapere come stavano, se avevano i medicinali”. Per Ceppi è quindi “mancata umanità, ma forse anche capacità di intervenire in queste situazioni difficili. Però se non sono formate le persone che sono in Israele... Dovrebbero essere pronti, reattivi”.
Rammarico per chi non ha capito il senso della missione
Il viaggio è finito con il rammarico di non essere riusciti a portare gli aiuti a Gaza, ma anche, spiega il ticinese, con l’amarezza per il fatto che in molti “non hanno capito il senso della missione”. Si trattava di “arrivare fino a Gaza per aprire un corridoio, per far capire che questa popolazione che vive a Gaza e sotto assedio da anni e anni e bisogna fermare tutto questo”. E sottolinea: “Lo scopo della missione non era attirare l’attenzione su di noi”. E conclude: “Il genocidio è in corso. C’è una carestia. Non arrivano gli aiuti. E quindi bisogna rompere tutto questo. Se non è stato capito questo messaggio per me è un rammarico fortissimo”.