Letteratura

Dioniso nello stomaco

La scittura di Giorgio Manganelli

  • 28 maggio 2023, 00:00
  • 13 settembre 2023, 15:20
Giorgio_Manganelli.jpg
Di: Valerio Abate

Difficile – se non impossibile – scrivere dello scrivere di Giorgio Manganelli (15 novembre 1922 – 28 maggio 1990) senza entrare nell’orbita del suo stile, ovvero della sua positura, della sua qualità di visione come maturato sentimento di vita. Si dice che la scrittura di Manganelli sia barocca, come si addice a quegli scriventi che non tentano di trattenere la parola, ma anzi vi si fanno canali sommessi, ben evacuati e lubrificati, e che giocano con l’abbondante discorso diramandone e voltandone le direzioni finendo per costruire un grande labirinto.

Parliamo di una lingua delira e sbrigliata a cui è concesso di accedere ad un vasto bacino lessicale. Parliamo di un infinito cerimoniale con l’ombra della parola, di frequentazioni bizzarre, oscure, di abitanti infernali o cimmeri di notti sostanziali, di cerretani, di eretici raffinati, di bambole interiori e falsi dèi. La letteratura, in Manganelli, presiede all’organizzazione della demenza e dell’incantesimo. Ma di cosa? Potremmo affermare, con un sottile nichilismo interiore, che la demenza e l’incantesimo di cui parla Manganelli hanno a che fare con un certo nume negativo al centro del mondo, grazie al quale il mondo continua a morire. Suddetto nume, naturalmente, non può essere ucciso; ma forse può essere irretito con la parola, propriamente con un lungo e complesso incantesimo di parole sul nulla. Pensare che possa riuscire è pura follia. Ma forse è proprio nel fallimento dell’incantesimo che l’incantesimo riesce: alla fine l’incantamento si riflette su chi lo pratica; come scrive Nietzsche ne La nascita della tragedia (Adelphi), ogni arte drammatica presuppone l’incantesimo, e “in questo incantesimo chi è esaltato da Dioniso vede se stesso come Satiro, e come Satiro guarda a sua volta il dio, cioè nella sua trasformazione egli vede fuori di sé una nuova visione”.

Manganelli su Otello

RSI New Articles 30.09.2022, 14:54

Non è proprio Manganelli, nell’autorisvolto della prima edizione del Discorso dell’ombra e dello stemma, a dichiarare che il libro è stato non scritto ma trascritto da un fool? Si tratta dell’istanza di chi sa che la parola non gli appartiene, si tratta di subire il proprio incantamento: non sapere più nulla di sé, depositare il proprio nome sulla porta e abbandonarsi all’estasi dionisiaca che spezza e ricuce pezzi dell’individuo in un’unità multiforme, annientando – come scrive ancora Nietzsche – le barriere e i limiti abituali dell’esistenza. È un viaggio attraverso forme, ombre, caligini, luoghi fantastici su cui elaborare dottrine, luoghi in cui si può essere singolo e insieme molteplice, prete fantasma bestia sasso od ombra, luna, suburra. Uno sprofondamento nel sottosuolo, nella caverna della parola. Quella di Manganelli può essere affiancata – senza troppa arditezza – alle catabasi di Orfeo, di Persefone, di Dante, anche se il passaggio di soglia rimane incerto: che l’inferno di Manganelli abbia da qualche parte un confine da oltrepassare non è chiaro, pare insinuarsi in ogni pertugio del mondo – forse perché gli inferi sono il confine per eccellenza.

Dioniso – Affresco pompeiano (VII_2_16)

L’itinerario del sottosuolo – di lunghissima tradizione misterica – comprende: una cessione all’instabilità delle forme, fughe travestite da inseguimenti di se stessi, giochi in cui bisogna perdere, menzogne oneste e verità disoneste, turismi, esili e accoglienze maliziose in alta società, complotti, smembramenti, dotte indagini su nottambuli che abitano regioni notturne e – fiore all’occhiello – l’ironia. Ha tutto l’aspetto di un pellegrinaggio. Manganelli è il pellegrino di un labirinto che decorre, o meglio discorre – si ricordino l’incantesimo e la cerimonia con l’ombra della parola – e non può non farlo.

“Chi non conosce l’ombra della parola, ignora la parola, e quando parla usa parole che, ignare del proprio buio, non dànno luce alcuna” (Discorso dell’ombra e dello stemma, Adelphi). Manganelli pratica una parola capace di ombra non già perché parli di luoghi scuri e notturni, ma perché è in grado di essere doppia. Questa è una delle ragioni per le quali possiamo dire che Manganelli, tra gli scrittori moderni (presso i quali Dioniso ha trovato fortuna), è il più esatto praticante del sinistro, ebbro, ilare, tormentoso, deliro e potente culto dionisiaco. E poiché Dioniso non vive senza Apollo come Apollo non vive senza Dioniso, Manganelli procede indossando un mantello ricamato di argute argentee argomentazioni in luoghi dove, di fatto, nulla brilla! Di filosofia discorre e più ancora di teologia, ma non compare discorso logico, battuta o citazione colta e intellettuale senza l’ombra di un sorriso beffardo. L’inchiostro ride, la parola ride, l’ombra ride, Dioniso ride: “l’abisso conosce il riso, non la paura, non la privata desolazione”. Ma il riso di Dioniso non è socievole, è temibile, antico e asociale, un’orgia solitaria di parole e ombre che ridono. Il riso di Dioniso lo si ode nel riso della letteratura, precisamente nelle pareti di parole che costituiscono il labirinto.

Giorgio Manganelli – teologo a rovescio abile a distinguere le qualità del nulla – fugge la via diretta perché sa che lo porterebbe alla meta. Lui invece vuole errare nella casa delle possibilità, operare nell’anticamera dell’abisso, “cercare la sofferenza propria del discontinuo” (Dall’inferno, Adelphi); sa che in questo spazio vuoto e vasto è necessario costruirsi un labirinto, e per farlo deve percorrerlo. E parlando e scrivendo cadrà inevitabilmente nel centro di sé, nella grotta di Notte, dove Dioniso nasce per la prima volta. Lì, acquattato nell’ombra del suo stomaco, troverà quel nume negativo e userà il suo riso per modellare parole secondo la sua demenza (saggezza), così intimamente legata all’instabilità delle forme, ai passaggi onirici, ai legami mitici, da suggerirci che la via del labirinto sia proprio la metamorfosi, la perdita di nome e di forma, l’essere abitanti e abitacoli del nulla, non solo per conoscerne le qualità, ma per diventare, dopo il pellegrinaggio nel sottosuolo, una regale qualità del nulla.

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