Letteratura

Primo Levi

Il “brutto potere” e il disordine della vita

  • 31 luglio 2023, 00:00
  • 14 settembre 2023, 09:02
primo levi
Di: Mattia Mantovani

Il Premio Nobel Isaac Bashevis Singer diceva che si scrive -e in ultima analisi si vive veramente- sempre “dopo”, quando la memoria e la reinvenzione rimodellano e danno un senso ai lacerti e alle morte scaglie del passato. Una cosa, ad ogni modo, è certa: “hinterher ist man immer kluger”, come dice un proverbio tedesco, “dopo” si è sempre più saggi e avveduti, o comunque si dispone della giusta lucidità per articolare un giudizio meno affrettato e conseguentemente meno parziale. E’ il caso non solo delle occorrenze di una vita oppure della concreta storia di un’epoca, ma anche di tutte le idealità che alla prova dei fatti si sono rivelate molto diverse da come promesso e ingenuamente creduto.

Cosa dire, ad esempio, del “progresso” e del suo ottimismo in parte sincero e in parte strumentale, delle sue innegabili conquiste ma anche delle sue non meno innegabili e cocenti sconfitte, delle sue storture, mitologie e false speranze? Ci sono stati alcuni osservatori particolarmente avvertiti, liberi da settarismi e soprattutto privi di paraocchi ideologici, i quali avevano intuito che nell’intera faccenda c’erano alcuni sostanziali difetti di funzionamento e che il progresso si reggeva su un equilibrio piuttosto instabile. Basti pensare, in ambito italiano, a Ennio Flaiano e al suo celebre aforisma sul progresso che vota contro se stesso, a Luciano Bianciardi e alla sua “Trilogia della rabbia”, oppure al “Maestro di Vigevano” di Lucio Mastronardi e al “Male oscuro” di Giuseppe Berto, ma l’elenco è piuttosto lungo e comprende anche Guido Piovene, Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Giovanni Arpino, “Il padrone” e “Il crematorio di Vienna” di Goffredo Parise, il Buzzati de “Il grande ritratto” e dei “Misteri della MM”, e altri ancora.

A questo elenco di scettici merita di essere aggiunto, in una posizione tutt’altro che secondaria, anche Damiano Malabaila, lo pseudonimo letterario col quale Primo Levi (31 luglio 1919 – 11 aprile 1987), nel 1966, pubblicò per Einaudi la prima opera non direttamente ambientata nell’inferno del lager: un libro di quasi insidiosa bellezza, che all’epoca segnò il suo esordio come narratore di invenzione e ancora oggi si legge con piacevole stupore. Il volume in questione, che non ha nulla da invidiare alle opere più celebri e giustamente celebrate dello scrittore e chimico torinese, si intitola “Storie naturali”. Non si esagera dicendo che le “Storie naturali”, almeno per quanto riguarda la letteratura italiana, si presentano come l’opera che forse più di ogni altra ha smascherato taluni guasti del progresso, soprattutto perché non lo ha fatto in maniera rabbiosa ed esacerbata ma piuttosto in maniera allusiva, con una misura, un’eleganza e più in generale un ritegno sabaudo, se così lo si può definire, che costituiscono la cifra più autentica dell’altissimo magistero umano e intellettuale di Primo Levi.

Non bisogna tuttavia farsi fuorviare, oggi come allora, dal suggerimento intenzionalmente ingannevole di un lettore (e consulente editoriale) di spicco come Italo Calvino, che aveva insistito affinché sulla fascetta della prima edizione ci fosse una sola parola stampata in nero su sfondo giallo: “Fantascienza?”. Il punto di domanda è molto rivelatore, perché Calvino sapeva benissimo che le “Storie naturali” erano solo all’apparenza quindici “divertimenti” fantascientifici. Le situazioni immaginate e descritte da Malabaila alias Levi -i “Mnemagoghi” che vogliono “proustianamente” fissare la legge scientifica in virtù della quale i ricordi si legano agli odori, o ancora l’apparecchio “Versificatore” per creare la poesia perfetta, il “Mimete” che riproduce la materia, il “Calometro” misuratore di bellezza, solo per citare alcuni esempi, ma nel libro ci sono invenzioni e trovate davvero mirabolanti- potevano sicuramente apparire fantascientifiche nel 1966 e tutto sommato risultano un po’ fantascientifiche ancora oggi («se non ci credete, non me ne importa», aveva chiosato simpaticamente l’autore), ma la questione è un’altra, ed è stata perfettamente circoscritta proprio da Levi in una dichiarazione ripresa da Calvino nel risvolto dell’edizione originale.


Levi parla infatti di «una smagliatura del mondo in cui viviamo, una falla piccola o grossa, un vizio di forma che vanifica uno oppure un altro aspetto della nostra civiltà o del nostro universo morale», e aggiunge di provare «un vago senso di colpevolezza, come di chi commette consapevolmente una piccola trasgressione». L’autore si rende conto di proporre ai lettori «un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate», e si interroga sulla necessità di pubblicarlo. Nella risposta che Levi fornisce a se stesso sono contenuti il fascino, il segreto e insieme la sinistra e perturbante attualità delle “Storie naturali”: «Non le pubblicherei, se non mi fossi accorto che fra il lager e queste invenzioni una continuità, un ponte esiste: il lager, per me, è stato il più grosso dei vizi, degli stravolgimenti, il più minaccioso dei mostri generati dal sonno della ragione».

Chimico e scrittore, spirito laico e illuminista che ha vissuto sulla propria pelle l’eclissi della Ragione, gli abissi infernali dell’animale uomo, il peso talora insopportabile della materia e la forza di gravità della stupidità e della barbarie, Primo Levi ha riflettuto a fondo sulla questione ed è giunto a una conclusione perfino più pessimistica rispetto al già ricordato Flaiano, che ravvisava “flaubertianamente” nella stupidità l’istanza regolatrice della vita. Secondo Levi, invece, l’istanza regolatrice è ravvisabile soprattutto nel principio di conservazione dell’“omeostasi”. Al concetto di omeostasi, che in varie declinazioni è presente un po’ in tutta la sua opera e compare più volte anche nelle “Storie naturali”, Levi ha dedicato in particolare uno scritto del 1983 dal titolo “Il brutto potere”.

Ma cos’è l’omeostasi? La parola deriva dal greco, significa letteralmente “simile posizione” e indica in biologia l’attitudine di tutti gli organismi viventi -cellule, individui singoli o comunità- a mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche nel momento in cui variano le condizioni esterne. Un tipico esempio di omeostasi è costituito dalla capacità, propria dei mammiferi e degli uccelli, di mantenere la giusta temperatura corporea al variare della temperatura esterna e della quantità di calore prodotto nei processi del metabolismo. E’ ciò che in inglese si definisce “feedback loop”, “ciclo di retroazione”, e non è soltanto un principio biologico (la termoregolazione corporea, disciplinata dall’ipotalamo), perché serve anche a regolare il funzionamento dei termostati e altri macchinari.

Levi prende le mosse da questo assunto puramente scientifico e lo situa all’interno di una dimensione più ampia e screziata, facendolo idealmente dialogare coi celebri versi della poesia “A me stesso” di Giacomo Leopardi, posti in esergo allo scritto: «Al gener nostro il fato / non donò che il morire. Omai disprezza / te, la natura, il brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera, / e l’infinita vanità del tutto». Si tratta di una consapevolezza che Levi tende inizialmente a stemperare, affermando che «l’infinita vanità del tutto, di cui è difficile dubitare, pesa su di noi solo nei momenti di chiaroveggenza, e questi, in una vita normale, non sono frequenti». Ma a questa verità dello spirito, fatalmente duttile e compromissoria, si oppone la rigida e inflessibile verità elementare della materia. Il “brutto potere”, infatti, «appare incontrastato ed evidente a chiunque si sia trovato a combattere la vecchia battaglia umana contro la materia. Chi lo ha fatto, ha potuto constatare che questo pianeta è retto da una forza, non invincibile, ma perversa, che preferisce il disordine all’ordine, il miscuglio alla purezza, il groviglio al parallelismo, la ruggine al ferro, il mucchio al muro e la stupidità alla ragione. Contro questo potere, che (chi non lo ha provato?) lavora anche dentro di noi, occorrono difese. Il nostro presidio fondamentale è il cervello, che è dunque opportuno mantenere in buono stato, ma possediamo anche presidi minori, addetti a servizi più semplici, che condividiamo con gli animali inferiori e magari anche con le piante».

E qui il pensiero non può che andare alle parole con le quali lo stesso Levi, prendendo spunto dall’esperienza estrema del lager, ha definito il concetto di “tregua”: la vita come «una proroga», il timore del «comando dell’alba», della «voce straniera che pure tutti intendono e obbediscono» e che «comanda, anzi invita alla morte, ed è sommessa perché la morte è iscritta nella vita». Il “brutto potere”, appunto. Le uniche difese che si possono opporre sono principalmente i «meccanismi cerebrali», ma si può essere sicuri del loro perfetto funzionamento? La risposta di Levi è molto chiara: «Quando tutti i meccanismi, cerebrali e non, funzionano a dovere, ci è consentito di mantenere lo status quo; il che avviene abbastanza bene sulla scala dei giorni e dei mesi, meno bene sulla scala degli anni e dei decenni, tanto è vero che si invecchia e si muore. Questa virtù, del conservarsi uguali a sé stessi contro il brutto potere della degradazione e della morte, è propria della materia vivente e delle sue più o meno grossolane imitazioni, e si chiama omeostasi. Essa ci permette di resistere alle mille variazioni, interne ed esterne, che minacciano di rompere il nostro equilibrio con l’ambiente».

C’è tuttavia un enorme problema: così come un termostato è sottoposto ad usura e quindi rischia di difettarsi e da ultimo smette di funzionare, allo stesso modo il passare del tempo e la “vita” in generale intaccano e infine impediscono il funzionamento del meccanismo nell’essere umano: «Sulle lunghe distanze, l’omeostasi non regge. Ci pensa la “vita” a fare di te un altro, perché, a furia di rodere, ha distrutto le tue difese. Per lo più, la “vita” ci cambia in peggio, e perciò l’omeostasi, benché essenzialmente conservatrice, è una buona cosa, perché il conservarsi è un’esigenza minimale di tutti i viventi». L’omeostasi è una «buona cosa» perché molto semplicemente è il principio che ci permette di continuare a vivere, ma è di breve durata, sia nell’esistenza individuale che in quella collettiva, e talvolta può perfino essere piegata a un utilizzo strumentale, come osserva Levi in un altro passo estremamente rivelatore: «E’ sogno dei politici di tutti i tempi escogitare meccanismi di omeostasi adatti a mantenere in salute, o almeno in vita, il regime in cui credono, ma le società umane sono talmente complesse, i parametri in gioco talmente numerosi, che questo sogno non si avvererà mai».

Si potrebbe dedurne che il “brutto potere” non è una possibile consapevolezza della vita, ma la vita stessa. Ma se il “brutto potere” coincide con la vita, e soprattutto se l’omeostasi non funziona più, allora non è nemmeno possibile parlare di libertà e mancanza di libertà, che secondo Levi -perfettamente conscio della gravità della constatazione- risultano ormai espressioni prive di senso, un po’ come le “apparenze” di Kafka che rimandano ad altre apparenze e infine al nulla, oppure come la “Porta” dietro la quale si cela il vuoto nel “Sogno” di Strindberg: «Si soleva dire, cinquant’anni fa, che un eccesso di libertà conduce alla tirannide, e una tirannide troppo dura riconduce alla libertà. Se questa affermazione avesse carattere universale, vi si potrebbe ravvisare un’oscillazione intorno a un equilibrio, e cioè un rudimento di regolazione, per quanto crudele, costoso in vite umane e insopportabilmente lento. Tutto quanto avviene intorno a noi nel mondo di oggi ci induce a pensare che l’affermazione sia falsa».

Per il Faust di Goethe, lo stato perfetto della condizione umana è la negazione dell’omeostasi: lo “Streben”, la costante tensione verso tutto quanto trascende il dato biologico consistente nel nascere vivere e morire («Grigia è ogni teoria, verde è invece il dorato albero della vita»). Parole indiscutibilmente bellissime, così come sono bellissime quelle di Flaubert e Flaiano sulla stupidità, ma la verità è un’altra: lo “stato perfetto” (“fortunatamente”, ma anche “purtroppo”) è con ogni evidenza l’omeostasi. Ecco perché le parole che chiudono lo scritto di Levi ci appaiono oggi come la nitidissima fotografia di un presente sempre più opaco e sfocato: «Il disagio che pesa su di noi in questi anni nasce di qui: non percepiamo più forze di richiamo, omeostasi, retroazioni. Il mondo ci sembra avanzare verso qualche rovina, e ci limitiamo a sperare che l’avanzata sia lenta».

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