Ma l’Arabia Saudita si sta davvero comprando il calcio a suon di milioni? Cosa sta succedendo al mondo del pallone se campioni affermati come Milinkovic-Savic, giovani promesse come Gabriel Veiga e addirittura Neymar Jr. preferiscono abbandonare i campionati europei per migrare nelle luccicanti località arabe?
Prima di rispondere (o almeno provarci) a questa domanda, proviamo a fare un piccolo salto indietro nel tempo.
Possiamo, probabilmente, dire che i primi segnali di un possibile cambiamento (sospendiamo per ora il giudizio) li avevamo già colti con l’arrivo dei fondi qatarioti e emiratini e l’acquisizione di società storicamente mediocri come Paris Saint-Germain e Manchester City che nel giro di pochi anni, a suon di milioni, si sono imposte nelle competizioni nazionali e continentali e sono diventate mete privilegiate per allenatori e calciatori di altissimo livello. Altro segnale, importante, è stato il discusso Mondiale in Qatar, il primo a ribaltare l’agenda calcistica tradizionale, a fermare i campionati in quasi tutto il mondo, perché da giocare in inverno. Campionato del Mondo che si è trascinato tra polemiche e situazioni decisamente controverse.
Poi Cristiano Ronaldo. Il giocatore più famoso al mondo (dati alla mano), in un’età comunque già avanzata della sua carriera, decide di sposare la causa, decisamente multimilionaria, dell’Al-Nassr, squadra saudita che gli offre circa 200 milioni all’anno per emigrare a Riad. “Ma Ronaldo ha 38 anni, è in fase calante, sembra l’ultimo cinguettio di una carriera straripante in cui il pensiero va più sul monetizzare che sul giocarsi le ultime cartucce di competitività, quella vera”. Così almeno abbiamo pensato tutti, sbagliando.
Già, perché nel giro di solo un anno, l’Arabia Saudita comincia a offrire stipendi folli a calciatori di tutto il mondo, concretizzando affari impensabili, portandosi a casa giocatori ancora giovani, nel pieno della loro carriera, fino ad arrivare appunto allo straripante talento (forse mai espresso del tutto) di Neymar. E sembra proprio che la parola fine a questa storia non sia stata ancora scritta, anzi.
Lasciamo da subito perdere il discorso economico o quello più in vista dell’espansione araba nel campo dell’intrattenimento (anche la Formula 1 e Moto Mondiale sembrano essere nel mirino) che sicuramente sono gli aspetti principali di questo moto perpetuo verso il campionato arabo. Ciò che a noi preme guardare, osservare e analizzare è la perdita di una certa magia di quello che è il calcio nella sua essenza primaria. Un calcio ormai svuotato di campioni, di valori e di idoli che effetto può avere a livello sociale (verrebbe quasi da dire sociologico)? Oggi, l’avvicinarsi al calcio è ancora una questione di passione o è principalmente finanziaria? Giovani, genitori, tifosi e le stesse società sanno e sapranno andare oltre l’aspetto monetario?
La prima riflessione che salta alla mente è banale, ma piuttosto significativa. La gara allo “stipendio” più alto è un fenomeno tutto sommato recente nel mondo del pallone: negli anni ’80 e ’90 in prima pagina c’erano già le cifre dei trasferimenti, ma quasi mai quelle degli stipendi dei calciatori, che nel giro di pochi anni sono lievitati a dismisura sotto l’influsso di fondi potenzialmente infiniti (come quelli arabi), di procuratori sempre più abili (o avidi a seconda dei punti di vista) e calciatori che tengono in questa maniera in scacco le società.
In parallelo, la poesia e la magia del calcio come gioco di strada sembra essere andata via via smarrendosi a favore di una professionalizzazione, fin troppo estrema, anche dei settori giovanili. E poi, quello che una volta era un sogno, oggi è diventato una delle tante distrazioni a portata di mano dei più giovani, che si dedicano ad altri sport (perché hanno più visibilità) o, purtroppo, fanno meno sport in generale. Perché se da una parte è vero che con l’on demand e i social oggi è più semplice seguire, anche, campionati lontani come quello saudita, il modello calcio è collassato anche con lo svuotamento degli stadi che simbolicamente hanno sempre rappresentato un tempio in cui guardare da vicino quelli che erano, in termini letterali, degli idoli per i tifosi. Senza quel contatto, senza quel rapporto, senza quel sogno, qualcosa probabilmente si è rotto.
Sono scomparsi in paesi e città i campetti improvvisati, le partite dopo la scuola, il calcio amatoriale al suo livello più emozionale, dove non era tanto l’obiettivo a essere importante (che fosse vincere la partita o riuscire a emergere) ma l’esigenza e l’urgenza di giocare e divertirsi. Il calcio non è più divertente? Non lo sappiamo dire con certezza, ma la sensazione è che abbia perso una componente emozionale importante, rimpiazzata, solo in parte, da video celebrativi su YouTube, con milioni e milioni di visualizzazioni, da campagne social estremamente cool e al passo con i tempi, ma che non restituiscono quello spirito di emulazione che per ogni ragazzino e ragazzina era alla base dell’avvicinarsi a questo sport. Chiariamoci, il calcio è sempre stato uno sport “mainstream”, popolare, seguitissimo, oggi lo è senza dubbio ancora, ma ciò che sembra comunicare non è tanto un’emozione, quanto una competizione, sia in termini di vittorie e sconfitte, sia in termini meramente finanziari ed economici.
Non vogliamo certamente sconfinare nella lode alla nostalgia e basta. Prima non è sinonimo di meglio. Ma se uno sguardo al passato può servire a capire dove siamo oggi, è piuttosto chiaro che il calcio ha perso una grande e importante componente di amore, passione e dedizione da parte di aspiranti sportivi e tifosi, ormai più abituati a (sentir) parlare di (calcio) mercato e soldi che di calcio giocato, di azioni in borsa che di azioni in campo, di stipendi e offerte che di affetto e attaccamento alla maglia. E se neanche più le magliette delle squadre sono un qualcosa di resistente all'impermanenza, se anche il numero 10 (il numero per eccellenza del calcio) ogni anno cambia proprietario o addirittura resta senza proprietario, se non esiste più la parola fantasista, che ne è del pallone che una volta a testa si portava al campetto per giocare fino allo sfinimento? Probabilmente, nel calcio, la palla oggi non è (più così) rotonda.