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Dentro la guerra, da Izium a Bakhmut

La testimonianza del nostro inviato in Ucraina tra devastazione e storie di resilienza

  • 19 January 2023, 05:57
  • 24 June 2023, 01:41
  • UCRAINA
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Distruzione e vita

Distruzione e vita

  • Emiliano Bos
Di: Emiliano Bos

Una luce fioca e tremula da una finestra al secondo piano. Un’altra altrettanto flebile dal quinto, nel palazzo semi-deserto in cui dormiamo. Poi è buio impenetrabile nella notte di Izium. Nessun riflesso nemmeno dalla croce squarciata dell’insegna della farmacia comunale, appesa come un Cristo senza gambe ai brandelli di edificio con le travi sghembe nella piazza centrale. Nessun borbottio di un generatore squassa il silenzio inquietante di queste tenebre dense. Solo i fari dell’auto accendono i fiocchi puntiformi di una pioggerella trasformata in neve leggera.

L'insegna di una farmacia

L'insegna di una farmacia

  • Distruzione e vita

Black-out e sciami di missili

L’ennesimo sciame di missili – in questi giorni – non ha spento nulla qui. Non c’era quasi più niente da lasciare senza energia elettrica. La città è sprofondata nel baratro dell’occupazione russa per sei mesi, dopo le prima settimane di combattimenti per respingere l’invasione lo scorso marzo. Questa, per l’esercito ucraino, è una zona “liberata”. Per Roman, 42 anni, è una prigione. “Non ho alternative, non saprei dove andare”. Spinge una carriola con grossi rami appena tagliati. La porta a casa dell’amico che lo ospita. La sua è inutilizzabile: un colpo di obice ha colpito il tetto della stanza accanto a quella in cui dormiva. Non solo.

I resti di un missile

I resti di un missile

  • Emiliano Bos

Sul cellulare mostra la foto dei resti di un missile conficcato nel suo giardino – e ora rimosso, a tre passi dai gradini d’ingresso di questa modesta villetta a un piano. Dice di ritenersi fortunato. A meno di cento metri un altro missile lanciato dai russi sbriciolò l’ala centrale di un palazzone di stampo sovietico in via Pershotravneva 2.

Abitazioni civili polverizzate: 52 persone nascoste nel seminterrato per ripararsi dai bombardamenti furono seppellite sotto le macerie. “I corpi recuperati solo un mese dopo”, aggiunge Adrian. Viveva qui: mostra ciò che resta del suo appartamento monco al primo piano. Ora sembrano due palazzine separate, su un lato si scorgono le piastrelle color carta da zucchero di un bagno e uno scaffale e con i libri impilati in ordine. Immagini che non fecero il giro dei social come la cucina gialla della palazzina sventrata sabato scorso a Dnipro. Qui non c’era nessuno a scattare foto. Qui c’era l’occupazione degli “orchi” russi, come li chiama chi ne ha subìto la tracotante violenza. Nessuno venne a sapere della strage per settimane. Adesso di quelle case e di quelle vite restano due torri tetre, separate da un vuoto che spalanca la vista sulle cupole dorate a forma di cipolla della chiesa ortodossa. Nel giardinetto il mozzicone di uno scivolo: certo, ci abitavano famiglie con bambini. Le vittime furono seppellite in fretta in tombe scavate nella sabbia sotto una pineta alla periferia di Izium.

Izium, le tombe dei senza nome

Questo cimitero è la prima tappa in città con Olena. L’abbiamo accompagnata da Zurigo, dove vive in un centro di accoglienza del Cantone con sette figli, quasi tutti adottati. È stata una delle ultime tre infermiere rimaste durante l’assedio russo.

Senza un nome

Senza un nome

  • Emiliano Bos

Oggi piange sulla tomba della mamma. Una sepoltura “ordinaria” accanto alle fosse scavate invece durante i bombardamenti, appena una fila dietro. In totale 451 buche, su cui resta qualche croce di legno con un numero. In qualche caso nemmeno il nome. I corpi vennero riesumati. Molti sono stati riconosciuti solo dopo i test del DNA. Alcuni avevano segni di morte violenta. La Procura di Kharkiv indaga per crimini di guerra. La madre di Olena stava semplicemente tornando a casa, era andata a caricare il cellulare in ospedale. Un’esplosione l’ha uccisa a meno di cento metri dal rifugio, con lei un figlio di Olena è rimasto gravemente ferito. “Adesso sono orfana anche io, nessuno potrà restituirmela” sussurra Olena. Un abbraccio e poi ripartiamo verso l’ospedale cittadino.

L'ospedale, baluardo di resilienza

Il direttore sanitario Bogdan Berezhnoy ci porta al primo piano. Mostra ciò che resta della sala operatoria, distrutta da un’esplosione. Monconi di attrezzature chirurgiche penzolano dal soffitto. La parete squarciata si apre verso il piazzale con la stazione degli autobus, appena sotto la collina a qualche minuto a piedi di distanza. Uno spazio spettrale. Il ponte sul fiume Donets distrutto. Le facciate dei palazzi annerite. Un centro commerciale sventrato. Nessuno in giro. Solo due anziani, salgono su una Lada color carminio sbiadito. Intorno scodinzola un cagnolino col pelo nero e ciuffi bianchi di taglia media. Si metterà poi educatamente seduto su due zampe accanto a me durante la diretta serale per il Telegiornale.

La sala operatoria distrutta

La sala operatoria distrutta

  • Emiliano Bos

Dentro l’ospedale, decine di pazienti in attesa. Il corridoio è l’unico posto caldo nei dintorni, fuori ci sono -13 gradi e un vento gelido che graffia le orecchie. “Ero l’unico specialista rimasto, dovevo cercare di essere chirurgo, ostetrico, internista. Serviva tutto” mi dice il dottor Yuri Kuznetzov, ortopedico. Indossa una cuffia blu che pare quella di un derviscio rotante. Ha 52 anni. Le guance solcate da rughe verticali, sugli occhi una saracinesca di stanchezza che dura da quasi un anno: le sue palpebre sembrano aver accumulato la sofferenza di tutti coloro a cui ha donato cure e un po’ di sollievo. Ed è da quasi un anno che i russi martellano sistematicamente – e impunemente - ospedali e strutture sanitarie. Ma non solo.

Una città annichilita

Qui sembrano aver voluto annientare l’anima urbana di un agglomerato di quarantamila abitanti. Quasi a voler eliminare spazi comuni e proprietà private per renderlo inabitabile. Risalendo verso il centro, è una litania ininterrotta di edifici anneriti. “Sogno” recita il cartello pubblicitario appoggiato di traverso nelle rovine di un bar riconoscibile solo dai resti del bancone. Difficile immaginare che qui brulicasse la vita. Ora imperversa la morte. Prima i combattimenti per impedire l’avanzata dei russi. Poi l’occupazione. Quindi la ritirata: gli invasori hanno devastato ciò che era rimasto in piedi. Hanno demolito attività commerciali, legami famigliari, relazioni personali. Hanno ucciso: qui davanti a un chiosco all’angolo di via Pokrovskaja una bomba a grappolo ha ucciso la mamma di Olena.

Una donna che cammina per strada a Izium

Una donna che cammina per strada a Izium

  • Emiliano Bos

Su viale Gagarin non resta una vetrina intatta nella parte alta della strada. Poco lontano, Larissa ci accoglie nel centro comunale per sfollati e senza dimora che dirige: 34 anziani rimasti in qualche caso per mesi nascosti nelle loro case durante l’assedio. Svitlana, maglione un po’ lacero e sorriso svelto, condivide la stanza con altre quattro ospiti. Siede invece a un tavolo davanti a una tazza di minestrone caldo la signora Anja, cappellino di lana e una vestaglia marrone a fiori celesti. L’hanno trovata ieri gli operatori dei servizi sociali in una casa in rovina qui a Izium. Non ha documenti né parenti. La direttrice ci chiede di diffondere la sua foto. “Forse qualcuno la riconoscerà. O forse qualche famigliare tornerà ora che l’occupazione è finita”.

Memorie quotidiane

È finita ma qui è impossibile scrollarsi di dosso le memorie dolorose di quei mesi. Sono scolpite ovunque. Muri sbrecciati a colpi di granate e cannonate. Le sventagliate delle mitragliatrici hanno imbrattato di proiettili la facciata del piccolo motel nei pressi dell’ospedale. Resta una scala di cemento, con gradini sospesi nel vuoto inquietante di questa nuova Mostar con un fiume e due ponti spezzati. Oltre alle macerie nel centro abitato, i segni del passaggio dei russi sono lì a sinistra appena fuori città, sulla strada per il Donbass.

Non portano da nessuna parte

Non portano da nessuna parte

  • Emiliano Bos

Verso il Donbass

Una dozzina di blindati, carri armati e mezzi militari anneriti accanto a una stazione di servizio bruciata. Di fianco, il check-point dei militari ucraini. Un vagone ferroviario in disuso – chissà come finito qui - è utilizzato ora come alloggio per i soldati di guardia al posto di blocco. Un cartello rosso avverte della presenza delle immancabili mine. Nella scomposta ritirata, i russi hanno minato il terreno abbandonando veicoli e rifiuti. Ma anche – secondo molte fonti – i corpi di alcuni dei loro caduti.

Mine

Mine

  • Emiliano Bos

Proseguiamo verso il confine amministrativo del Donbass. Carcasse d’auto e di veicoli militari rovesciati in modo regolare e continuo ai lati della strada. Come fermate di un autobus di linea. Anzi, diretto verso la prima linea. Sfioriamo il monumento con la scritta Donbass, crivellato di colpi. Qui la guerra è iniziata nel 2014. Via verso Sloviansk, poi superiamo Kramatorsk. Tappa a Kostantynivka, retrovia del fronte e rifugio per chi scappa dai combattimenti. “Stamani sono arrivate solo quattro persone” ci dicono le volontarie nella sala d’aspetto della stazione. Una stufa a legna accesa, ci offrono subito thè caldo. Tre signore sulla cinquantina, tutte dipendenti delle ferrovie ucraine: qui a Kostantynivka i treni non circolano. Occorre un bus fino a Kramatorsk e poi si prosegue con i convogli, àncora di salvataggio per milioni – nel vero senso – di ucraini fuggiti dalla guerra. “Evacuazione? Non scherzate. Io da qui non mi muovo. Non mi aspetta nessuno” risponde decisa la signora Valja (Valentina), 72 anni. Spinge un carretto con qualche pacco di cibo tra i banchi spogli e inanimati del mercato. I binari del tram piegano di sbieco tra palazzoni grigi resi ancora più lugubri dal rimbombo continuo dei colpi di artiglieria a pochi chilometri. Divise mimetiche appese all’ingresso di un negozio attiguo a un riparatore di biciclette. In giro pochi civili e molti soldati in pausa dai turni al fronte di Bakhmut e di Soledar, ormai in mano ai russi. Qui arrivano famiglie e persone che non resistono più sotto le bombe. Da quasi sei mesi ormai. Fuggiti lungo la strada che noi imbocchiamo in direzione contraria rispetto a chi scappa. Verso la prima linea.

Sulla strada per Bakhmut

I tonfi sordi dei colpi arrivano a intervalli quasi regolari ma continui. Appena usciti dall’abitato di Kostantynivka sulla destra una grande fabbrica di pezzi di ricambio per auto è diventata una base militare. Dall’altro lato, nella boscaglia, si scorgono trincee e carri armati. Questa è la seconda linea degli ucraini. Sulla strada poche auto, soprattutto mezzi militari e di soccorso. Ai lati una campagna innevata e appena increspata dalle colline. Superiamo Chasov Yar sulla sinistra, un villaggio che sarà bombardato poche ore dopo con colpi di obice sulla scuola, per fortuna senza vittime. Su un dosso più alto staziona un tank ucraino. Il panorama si apre, la carreggiata piega verso destra: ecco Bahmut, lì davanti c’è il villaggio di Ivanivske e appena dietro la periferia della città. All’ingresso sentiamo un colpo di obice molto ravvicinato. Parte probabilmente dalle postazioni ucraine. Impossibile sapere se in risposta a un attacco dei russi.

Verso Bakhmut

Verso Bakhmut

  • Emiliano Bos

Proseguire diventa oltremodo pericoloso. Chiediamo all’autista Viktor di invertire la marcia. Lui tentenna, vorrebbe mostrarci a tutti i costi il cartello d’ingresso della città. Un rischio inutile. Questo è l’epicentro del conflitto oggi. Da mesi i russi cercano di conquistare un centro strategico per l’avanzata verso il resto del Donbass, che Putin in queste ore – stando a fonti di intelligence ucraina – avrebbe ordinare di occupare entro la fine di marzo. Il governo di Kiev è convinto che l’equilibrio delle forze in campo sul fronte orientale non cambierebbe. Putin ha un disperato bisogno di una vittoria. Ma intanto questo scontro è costato la vita a un numero enorme di soldati. Su entrambi i fronti. E ha devastato una città che contava oltre 70mila abitanti. Ne restano poche migliaia. Lasciamo la linea del fronte per rientrare verso Izium.

Di ritorno a Kamyanka

Ad accomunare i luoghi dove si combatte oggi e quelli dove si è combattuto nei mesi scorsi c’è il livello di devastazione. Prima di arrivare a Izium si attraversa il villaggio di Kamyanka. Di oltre 400 case ne sono rimaste in piedi pochissime, tutte danneggiate.

Kamyanka

Kamyanka

  • Emiliano Bos

Lo scenario è surreale. Quasi tutte le abitazioni sono distrutte. Alcune rase al suolo. Di una resta una sola parete di mattoni rossi scomposti che sfida la forza di gravità. Su un’altra, sfumature di nero su finestre divelte, segno di incendi all’interno. Superiamo un autobus arrugginito: “Lo guidavo io quello” ci dice Sergji, dita callose che stringono la sigaretta e iridi azzurro ghiaccio. È rimasto qui durante l’occupazione. “Quello è ciò che rimane della casa di mia figlia, lì abitavano i suoi suoceri”. Scuote la testa. Vorrebbe portarci nella sterpaglia a vedere le postazioni abbandonate dai russi. Ma queste zone sono minate. Si cammina solo sulle strade sterrate principali.

Alena

Alena

  • Emiliano Bos

La casa di Sergji è all’inizio del villaggio. “Avevo conigli, api, galline… i russi mi hanno distrutto tutto”. Due buche circolari nel terreno con diametro non inferiore a tre metri confermano che le bombe sono cadute anche nel suo giardino. Alena, la mamma 83enne, siede all’interno su un divano accanto alla stufa. Si tormenta le mani appoggiate sul grembo, i capelli raccolti da un fazzoletto. Si commuove quando racconta dei mesi trascorsi nella cantina sotto costanti bombardamenti, mentre i russi occupavano le case di questo villaggio. Qui da marzo scorso manca l’energia elettrica. Alena vorrebbe ascoltare una radio a transistor ma è scarica. L’unica fonte di approvvigionamento per la corrente è la batteria di un’auto. “Quando finisce quella, andiamo a dormire”.

In cerca di un corpo

Per Nina invece non è finita la ricerca di una luce, di una fiammella di speranza. Non ha più la casa. Ci mostra ciò che resta: un perimetro di mura bruciacchiate, i locali sventrati. Nel giardino, buttata a terra e ormai inutilizzabile, la moto con cui il marito - racconta - “andava nei boschi a raccogliere funghi”. Di lui non c’è più traccia. Nina continua a cercarlo.

L’ultima volta, ad aprile, è stato visto nel rifugio di questa casa. I due anziani che erano con lui sono stati trovati morti. Accanto i resti di un’altra casa sfregiata con la “Z” come “Zapad” (“Nord), i battaglioni russi delle regioni settentrionali che hanno firmato i crimini contro i civili dipingendo la scritta sulle rovine di questi modesti edifici di campagna. Sono in corso migliaia di inchieste per crimini di guerra. Oltre al marito, Nina ha perso il figlio di 42 anni. Ucciso mentre tentava di evacuare gli anziani di Kamyanka. “L’hanno trovato nel suo giardino in un villaggio qui vicino. L’hanno lasciato lì, seppellito sotto una coperta”.

Casse munizioni

Casse munizioni

  • Emiliano Bos

Accanto alla casa di Nina – e un po’ ovunque in queste strade col fango cristallizzato dal freddo – sono sparpagliate le casse delle munizioni dei russi. “Niente sarà più come prima” riesce a dire. Si ferma. Guarda i brandelli di una vita che non esiste più. È impossibile misurare un dolore così profondo. Nina resta in silenzio, una postura composta come di chi trova incredibilmente la forza per restare in piedi e non crollare come le travi del soffitto ormai inesistente. Stringe una borsetta nera, avvolta in una giacca rosso scuro appena ricevuta in dono da alcuni volontari. L’ultimo bilancio aggiornato dell’Onu sulle vittime civili in Ucraina – in queste ore - indica oltre 7’000. Tra questi il figlio di Nina, di sicuro. Il marito invece è in un altro elenco. Quello degli oltre 700 “missing”, i dispersi della regione di Kharkiv, come ci dice il portavoce del procuratore Dmytro Chubenko. Non è nemmeno tra i morti: il prelievo dei campioni di DNA sul nipote non è servito a nulla, per ora. “Forse è prigioniero”, si lascia andare Nina. Ci spera ancora. Ogni albero e ogni fiore di questa casa – dice in modo dignitoso – “li avevamo piantati noi”. Calpestati dai russi. Come le loro vite.

Ucraina, reportage dalla linea del fronte

Telegiornale 17.01.2023, 21:00

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