Stato del Texas. A sud che più a sud non si può, confine con il Messico via il Rio Grande. Eccoci nella Rio Grande Valley, appunto, che di valle ha bel poco trattandosi per lo più di un’arida pianura: tanta terra mangiata dai chicanos immigrati, che sembra andar giù solo con birra e margaritas. Una di quelle regioni dove la traiettoria della vita sembra già disegnata dal crudele destino sulle strade polverose. Che se ci nasci latinos, o attacchi o subisci. Beatriz Macedo è una bellissima giovane donna, vivace ma con le idee chiare in testa, una güera, che ha deciso di sottrarsi a quel destino di ragazza madre sedotta e abbandonata che la accomuna a quasi tutte le donne che conosce, e partire a studiare più a nord. Ci ha provato, ma il futuro non si è fatto scansare. La sera prima di partire Betty conosce il Palo, uno dei Rabbiosi, la Banda più efferata della zona. Il più bello e buono, che dopo averle fatto perdere la testa le blocca la vita e la tiene lì per sempre. Sì, perché Lukas Manuel Santana, così si chiama, tre mesi dopo sarà accusato di un crimine non commesso, e grazie alla Legge delle Bande, che tutt’oggi imperversa nello stato del Texas, per il solo fatto di essere a conoscenza di un ‘colpo’ viene condannato alla pena capitale. La breve vita di Lukas Santana (Nave di Teseo) racconta di questo, degli anni nel braccio della morte ma anche delle donne di fuori, di madri, sorelle, fidanzate e zie, amiche devastate e padri assenti. Racconta la disperazione di un popolo, e ci porta all’interno delle luride prigioni di uno degli Stati in cui la pena di morte è normalità.
Elvira Dones scrive questo romanzo corale dove veniamo rimbalzati tra dentro e fuori la cella, tra passato e presente, colpe e grazie, Messico e Svizzera. Lo fa con dovizia di particolari, perché a lungo ha studiato e documentato questa realtà (restituendoci le storie in due documentari, uno prodotto dalla RSI), e lo fa con passione, perché in un modo o nell’altro, la sua storia albanese vive anche in questi personaggi.
Elvira Dones - “Albanese”
Vulcano 09.11.2024, 16:02
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L’autrice, fuggita dal regime comunista in Albania nel 1988 per stabilirsi prima in Svizzera e poi negli Stati Uniti, è sempre stata attratta dalle storie della gente, che ha illustrato in romanzi e film, e lo ha sempre fatto con l’entusiasmo e la sensibilità di una cantastorie coraggiosa. Sarà alla Casa della Letteratura di Lugano sabato 17 maggio a parlarci proprio di Tutte le vite che ho potuto raccontare, tra le quali spicca quella di Lukas Santana.
C’è frase che mi ha colpita, nel tuo romanzo, forse perché è quella che mi permette di scorgere il legame tra la tua vicenda e quella di molte vite nella valle del Rio Grande: “A dispetto degli odori diversi, le polveri del mondo erano e sono tutte uguali”, a pronunciarla è Falma, amica albanese di Inez, una delle zie di Lukas. Cosa unisce le polveri del mondo?
«La confusione e la lucidità al contempo. È tutta una questione di antipodi. Queste polveri sono la disperazione ma anche la speranza che non muore mai. Portano in sé l’illusione delle persone che vivono e reagiscono dicendo ‘ovunque è meglio di qua’. È la voglia di partire, che io trovo intensa e splendida. Quando torno in Albania le vedo ancora quelle polveri, anche se l’Albania è cambiata. In molti ce l’hanno fatta, ma tanti sono rimasti sgretolati dal tentativo di una vita migliore che non hanno trovato».
La storia di Lukas Santana è la storia di troppi. Come mai hai deciso di raccontarla? Quale urgenza ti ha portata a scrivere della pena di morte e perché?
«Mi sono sempre occupata delle vite invisibili, ai margini. Persone che se vediamo per strada in genere voltiamo la testa dall’altra parte. Anche io facevo quello’effetto, ero albanese, ero il dubbio, per chi mi vedeva. Mi intrigano molto più gli angoli del buio che le luci. Queste sono belle ma le vedi a occhio nudo, mentre andare a cercare la bellezza nel buio è più difficile, ed è questa bellezza che mi ha sempre attratto. Forse perché sono figlia dei Balcani. Il dolore e la disperazione li ho vissuti tramite le storie di amici e membri della mia famiglia. Quello che vorrei raccontare sempre sono la forza e la bellezza che certa gente conquista nel superare il male. Lukas e Santana è stato un amore lungo e molto doloroso. Per la Rsi avevo creato un documentario sulle vite di chi sta accanto ai condannati a morte ed ero in contatto con diversi prigionieri. Avevo però solo ricucito le storie, senza conoscere i protagonisti, senza parlare di quel tipo di orrore, dell’assurdità della Legge delle Bande. La scrittrice che sta in me ha voluto andare oltre».
Un romanzo corale che dipinge molto bene il mondo femminile. Miseria, perdizione, dolore in questo romanzo sembrano pervadere ogni angolo di strada. Così come la difficile lotta per la dignità di un popolo finito nel posto sbagliato. Sono soprattutto le donne in questa realtà che organizzano, sistemano, cercano, sperano, si occupano della resilienza, ci provano, non è vero?
«Io mi definisco una femminista costruttiva, non da trincea. Come sempre, sono le donne quelle che tengono in piedi tutto! In un altro mio libro sofferto, Piccola guerra perfetta, le donne raccolgono i cocci della guerra fatta dagli uomini. Le amo e le conosco molto bene, ho avuto la grande fortuna di avere due nonne straordinarie e delle zie fuori dal comune in quanto a bellezza e resilienza. Entro molto facilmente nella pelle delle donne».
Non è altrettanto facile con i detenuti. La loro condizione nel braccio della morte è stata documentata da te nel film in Non ammazzate mio padre, che hai citato prima. Mi ricorda la frase urlata contro il cielo del Texas dalla piccola Maya, la sorella di Lukas. Come riuscire a entrare nelle celle e nelle menti che vi impazziscono?
«È stato un lavoro certosino, anni di ricerca. L’inizio del libro l’ho scritto di getto, poi però descrivere un decennio di prigionia è stato più difficile. Non solo psicologicamente, ma anche tecnicamente. Ma lo scrittore si occupa di osservare la psiche umana altrui in tutte le sue angolature, e se non è bravo a entrare in una vita che non ha vissuto, allora fallisce. La ragazzina da cui mi sono ispirata per la reazione di Maya è esistita veramente. Due giorni prima dell’uccisione del padre andò alla corte suprema di Washington DC accompagnata dalla zia e altri manifestanti con un cartello in mano: «se ammazzerete mio padre avrete ammazzato me». La forza di quella scritta e la sua disperazione erano tanto grandi che hanno fermato la macchina infernale. Il padre è ancora vivo, anche se rimane destinato al braccio della morte, ma lei è cresciuta e una volta al mese lo può ancora vedere».
Ma nel romanzo Lukas no.
«Lukas non ce la fa, perché questo sistema è assurdo. E poi, lui è uno degli ultimi della terra, un chicano, per poterlo salvare ci sarebbero voluti avvocati molto importanti, molti soldi, avrebbe dovuto essere sostenuto da un’associazione. Al giorno d’oggi solo a Livingston in Texas ci sono circa 80 condannati a morte a causa della Legge delle Bande, non hanno mai ammazzato».
Come hai costruito questo romanzo? Ci sono tante voci, tanti luoghi, analessi e prolessi, c’è tutta un’epoca. Ci sono i colori del Messico, le tradizioni serbate dignitosamente, la fede, e poi dall’altra parte la violenza e la perdizione, uniche risposta apparentemente possibili per la sopravvivenza. Insomma, poca speranza in questa terra che sembri conoscere molto bene.
«In realtà nella Valle del Rio Grande ci sono stata solo per un mese e mezzo, per il documentario. Avevo raccolto testimonianze dirette della vita nelle prigioni. Per quanto riguarda la vita all’esterno, andava realizzata l’architettura. Avevo scritto in questo senso un altro romanzo simile, Sole bruciato, in albanese, dove l’architettura esterna è molto forte. Per quanto riguarda i miei personaggi, le loro vite, non sono mai costruiti a tavolino. Per me è una gestazione, come essere in cinta per molto tempo: tutto quello che verrà dopo è stato in me molto tempo prima. A volte sì, capita che qualche personaggio mi sfugga un po’ di mano, ho ancora il controllo ma sembra tutto in disordine… ma non sarebbe divertente se tutto fosse solo costruito e mai fuorviante!».
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