Osservata in oltre 130 Paesi del mondo e ufficialmente istituita a livello europeo il 26 aprile 2007, l’odierna Giornata internazionale contro l’omofobia fu celebrata, la prima volta, il 17 maggio 2005 su idea dell’attivista martinicano Louis-George Tin. Ma a seguito degli espliciti riferimenti alla transfobia e alla bifobia, rispettivamente aggiunte nel 2009 e nel 2015, è solo da nove anni che la ricorrenza ha assunto l’attuale denominazione acronimica IDAHOBIT (International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia). Va subito chiarito che, al di là del suffissoide che li compone, i termini omofobia, bifobia, transfobia – nell’ordine coniati da George Weinberg nel 1971, da Kathleen Bennet nel 1992 e da Julia Serrano nel 2007 – non rimandano ad alcuna fobia clinicamente definita. Similmente, infatti, alla xenofobia essi vanno intesi nell’accezione generica di avversione profonda, basata sul pregiudizio e, talora, su una paura irrazionale, per l’omosessualità maschile e femminile (in questo caso si parla più propriamente di lesbofobia), la bisessualità, il transgenderismo e per le persone omosessuali, bisessuali, trans o che sono percepite come tali.
Ciò precisato, non ci si può non chiedere perché la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia cada proprio il 17 maggio. Di natura commemorativa e fortemente simbolica, la scelta di una tale data è strettamente correlata a una decisione che non si esagera nel definire storica: fu infatti un 17 maggio, quello del 1990, che l’Organizzazione mondiale della Sanità, definendo l’omosessualità «variante naturale del comportamento umano» e «una caratteristica della personalità», la depennò definitivamente dal novero delle malattie mentali. Molto tardiva, invece, la presa di posizione nei riguardi della disforia di genere, rinominata incongruenza di genere e intesa quale disaccordo tra genere assegnato alla nascita e identità di genere: l’Oms l’ha infatti depatologizzata il 18 ottobre 2018, spostandone la relativa diagnosi, all’interno dell’ICD-11 (undicesima edizione dell’International Classification of Diseases in vigore dal 1° gennaio 2022), dalla sezione Disturbi mentali al nuovo capitolo intitolato Condizioni associate alla salute sessuale.
A dispetto di entrambe le decisioni dell’agenzia specializzata delle Nazioni Unite l’omobitransfobia è ben lontana dall’essere eradicata; anzi, le stesse conclusioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità continuano a essere rigettate da chi promuove e attua le cosiddette “terapie di conversione”, la cui anti-scientificità si tinge di carattere quasi criminale soprattutto se praticate su minori. Al riguardo è a dir poco preoccupante il dato emergente dall’ultima indagine dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA). Basato sulle risposte di oltre 100.000 persone LGBTI del vecchio continente e pubblicato il 14 maggio, il corposo rapporto, che tocca numerosi aspetti – dalla discriminazione alla violenza, dalle molestie al bullismo, dall’istruzione alla sanità fino alle politiche dei singoli Governi –, rivela nello specifico che una persona su quattro è stata costretta a sottoporsi a pratiche di conversione per cambiare il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere. Di queste due su dieci (pari al 18%) sono italiane.

Quadro ancor più desolante per il Bel Paese quello tracciato dalla 16° Raimbow Map, che Ilga-Europe ha presentato il 15 maggio sulla situazione delle persone LGBTI nei 47 Stati del Consiglio d’Europa in una con Bielorussia e Federazione Russa: l’Italia è infatti scesa dal 34° posto dello scorso anno al trentaseiesimo, laddove la Svizzera, ad esempio, si colloca al diciassettesimo. Su una scala di riferimento, che, basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti, va da 0 a 100%, sempre l’Italia si attesta inoltre al 25,41% tra Lituania e Georgia. Come dichiarato a RSI da Yuri Guaiana, segretario di LGBTI Liberals of Europe, «la celebrazione, in questa giornata, dei passi avanti compiuti non può farci ignorare il rallentamento nel processo di decriminalizzazione delle identità LGBTI, che richiede una riflessione globale: dobbiamo esaminare come le strategie del movimento LGBTI possano essere più efficaci. In Europa, assistiamo a un panorama contrastante. Alcuni Paesi avanzano, proteggendo con vigore i diritti LGBTI, mentre altri stanno regredendo, sfruttando la comunità come capro espiatorio per dividere e mobilitare gli elettori. È essenziale che ogni Paese europeo rinnovi il suo impegno legislativo e strategico per garantire libertà e uguaglianza. In particolare, l’attuale situazione politica italiana e gli attacchi alle persone LGBTI, dimostrano quanto sia cruciale avere una solida legislazione per proteggere i diritti fondamentali della comunità LGBTI».

La situazione delle persone LGBTI in Europa e, più in generale, nell’intero Occidente non può far dimenticare però la grande emergenza omofobica nel resto mondo. Bisogna infatti ricordare che al momento sono 63 i Paesi in cui i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso sono considerati reato e puniti per legge o de facto. Numero che, in realtà, andrebbe portato a 65 aggiungendo lo Stato de iure della Palestina e la provincia di Aceh in Indonesia. In cinque Paesi vige inoltre la pena di morte: mentre in tre di essi (Arabia Saudita, Iran, Yemen) essa è applicata sull’intero territorio statale, negli altri due (Somalia e Nigeria) solo in alcune specifiche province. Ad essi si è aggiunta lo scorso anno l’Uganda, in cui la pena di morte è prevista per “omosessualità aggravata” ossia per rapporti omosessuali con persone o HIV positive o ultrasettantacinquenni o minori o con disabilità. In altri sei Paesi, infine, cioè Afghanistan, Brunei, Emirati Arabi, Mauritania, Pakistan, Qatar ne è contemplata la possibilità, anche se da tempo non è irrogata a chi si macchiasse di “sodomia”.
Alla luce del contesto globale si deve perciò ritenere di grande portata l’appello lanciato, la prima volta, il 25 gennaio 2023 da Papa Francesco, che in un’intervista ad Associated Press, dopo aver sottolineato che «l’essere omosessuali non è un reato», aveva definito «ingiuste» quelle leggi che criminalizzano l’omosessualità e richiamato la Chiesa cattolica a lavorare per porvi fine («Tienen que hacerlo, tienen que hacerlo»). Un notevole passo di cambio, dunque, rispetto alla linea tenuta dalla Santa Sede, che, in qualità di Stato osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si era sempre opposta ai vari progetti Onu di depenalizzazione universale dei rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso, sia pur per evitare – come ebbe a dire nel 2008 l’allora direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi – «meccanismi di controllo in forza dei quali ogni norma, che non ponga esattamente sullo stesso piano ogni orientamento sessuale, può venire considerata contraria al rispetto dei diritti dell’uomo» e la conseguente «messa alla gogna» degli Stati contrari. Ma c’è molto di più. Le parole di Bergoglio, infatti, sono un indubbio e valido contributo nella lotta all’omofobia, qualora si consideri la storica responsabilità del cattolicesimo e del cristianesimo in genere (al pari delle altre due grandi religioni monoteiste) in rapporto al perdurante clima di avversione e pregiudizio verso le persone LGBTI.
La dignità (secondo il Vaticano)
Alphaville 10.04.2024, 12:35
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