È Un simple accident dell’iraniano Jafar Panahi la Palma d’oro della 78ma edizione del Festival di Cannes. Un film piaciuto a tutti, da subito; un film politico, forte, nascosto sotto l’abito di una commedia degli errori, quasi come le storie all’italiana degli anni ‘60. Un uomo che riconosce come suo torturatore uno sfortunato automobilista, rimasto in panne. Dopo averlo rapito e quasi sepolto, viene preso da un dubbio sulla sua identità, e raggruppa un eterogeneo quartetto di personaggi, con i quali inizierà un piccolo road movie che in una notte li porterà a decidere le sorti del malcapitato “gambadilegno”, così chiamato appunto per portare una protesi ad una gamba.
Juliette Binoche presidente di giuria lo ha annunciato dicendo “Non per le sue opinioni politiche ma per il suo cuore, l’umanità, la libertà ritrovata” e lui accoglie il premio, dopo mesi di prigione e 15 anni di divieto di uscita dal paese, dicendo “Difficile parlare, mettiamo via tutte le differenze, importante è la libertà del mio paese, nessuno ti deve dire cosa fare e cosa dire e il cinema te lo consente”. E così ha fatto, girando senza il permesso delle autorità e con attrici che nel film non indossano l’hijab.
Un verdetto che soddisfa, anche per gli altri premi assegnati, a cominciare dal doppio riconoscimento per The secret agent premiato per la regia di Kleber Mendonça Filho e per l’interpretazione di Wagner Moura. Un film che prosegue nel cammino intrapreso dal cinema brasiliano, in particolare con I’m still there di Walter Salles, presentato a Venezia e premiato agli Oscar, di rilettura della propria storia, specialmente il periodo degli anni ‘70, quando il governo era retto da una dura dittatura militare. Il protagonista, Wagner Moura (che abbiamo visto in Narcos) è un ricercatore che si rifugia in clandestinità a Recife, in attesa di poter lasciare il Paese con suo figlio e vive in una residenza che accoglie diverse persone nella sua stessa situazione. Ma alla sua ricerca si muovono due sicari, alleati con un trio di poliziotti locali corrotti.
La giuria guidata da Binoche, affiancata da Halle Berry, la regista Payal Kapadia, Alba Rohrwacher, dalla scrittrice Leïla Slimani, dalla regista Dieudo Hamadi, dal regista Hong Sangsoo, dal regista e sceneggiatore Carlos Reygadas e dall’attore americano Jeremy Strong, ha assegnato il Grand Prix all’altro grande favorito della vigilia, Sentimental Value di Joachim Trier, mentre il Premio Speciale è andato al monumentale film cinese Resurrection di Bi Gan, così come si sono divisi il Premio Speciale della Giuria altri due potenziali favoriti, Sirât di Olivier Laxe ex aequo con Sound of Falling di Mascha Schilinski.
La migliore attrice di questa edizione è Nadia Melliti per La petite dernière di Hafsia Herzi: Fatima è la sorella minore, diciassettenne, di una famiglia di origine algerina, che scopre improvvisamente la propria omosessualità, decidendo di sperimentarla incontrando diverse altre ragazze, combattendo intanto con il proprio dissidio interiore per non riuscire ad annunciare alla famiglia la propria sessualità.
Ancora una volta i fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne si sono visti sfuggire la terza palma d’oro, fermandosi solo alla migliore sceneggiatura per il loro forte e convincente Jeunes Mères.
Questa edizione numero 78 è stata caratterizzata da un concorso di qualità media decisamente notevole, anche se privo di titoli come Anora, Emilia Perez e The Substance nel 2024, o l’anno prima Anatomie d’une chute e La zona di interesse, capaci di conquistare spettatori in tutto il mondo, fino a correre per gli Oscar.
Ari Aster con il suo Eddington e Wes Anderson con The Phoenician Scheme, film troppo contorti ed autoreferenziali per i rispettivi autori, sono rimasti a bocca asciutta, nonostante il loro cast stellare. Senza premi anche l’unico italiano in gara, Mario Martone con Fuori e l’ucraino Two Prosecutors di Sergei Loznitsa. Se Martone ha diviso la critica, con quella italiana ad esaltarlo addirittura come uno dei film principali degli anni 2000 e quella internazionale che è invece rimasta piuttosto fredda col proprio giudizio, quello di Loznitsa, raffinato, riflessivo e potente, non ha forse scaldato a sufficienza gli animi della giuria.

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